Una Biennale che guarda altrove e prova a cambiare paradigma

Anche se timida nel guardare avanti, anche se troppo vicina all’etnico, la 60esima Biennale di Venezia fa riflettere. E non è poco.

Ci eravamo chiesti come sarebbe stata la Biennale di Antonio Pedrosa. Oggi che l’abbiamo vista possiamo dire intanto che è divisiva, e non solo. Nei giorni sempre più insensatamente affollati di quelli che dovrebbe essere la preview riservata agli addetti ai lavori, ho incontrato chi l’ha detestata – artisti e curatori – pronti a impalare Pedrosa; chi l’ha giustamente definita una grande mostra (nel senso di molto estesa, anche troppo) e poco Biennale, chi ha riconosciuto che è una Biennale di oggi, come lo era quella di Alemani – anche se un po’ furbescamente questa era concentrata quasi solo sul femminismo – mentre Pedrosa ci ha messo dentro tutti i temi del momento: gender fluid, migranti, patriarcato, post colonialismo, Global South e così via politicizzando. 

Partiamo da qui, perché anche se questi temi non sono neanche più tanto nuovi, in essi penso si celi la chiave per leggere questa biennale. Mai prima di ora avevamo visto tanti quadri e quadretti, tanta ceramica, tanto textile, tante perline (come qualcuno ha acidamente sottolineato). Una quantità di artisti che per la prima volta si affacciano su quella scintillante vetrina dell’arte che è la Biennale di Venezia, una tale quantità di “otherness”, che, ci piaccia o meno, diventa qualità: scelta di campo precisa, e penso anche consapevole del rischio strali. 

Tutti quei ricami e perline sono alla fine uno statement visivo per dire che l’Occidente è piccolo, e forse anche cattivo e colpevole avendo sottomesso e sfruttato il Sud Globale. Ma soprattutto sottolinea che, se è vero che esiste tanto mondo diverso dall’Occidente – straniero anzitutto verso questo -, per poterci fare i conti e guardarlo con occhi il più possibile laici, bisogna sgombrarli dalle nostre categorie. Guai, insomma, a dire che le perline e i ricami sono naif o al massimo esotici o etnici, che i quadri sono quadretti di cui ci frega poco o niente (come in molti pensano). Da questo punto di vista, a me la Biennale di Pedrosa mi pare una discreta provocazione. 

Perché se il mondo dell’arte, che dovrebbe essere un’élite culturale e quindi pronta ad aprirsi all’inusuale e anche al provocatorio, vuole davvero essere inclusiva (come si dichiara), questi criteri vanno buttati via: non si può giudicare con le stesse lenti oggetti e mondi fino ad oggi sconosciuti che quelle lenti neanche identificano. 

Si può non essere d’accordo con questa posizione, ma non penso ci siano alternative tra questo e liquidare con poche battute la Biennale del primo curatore dichiaratamente queer e, da lui in poi, molto di quello che è emerso negli ultimi anni nel mondo dell’arte. Rovesciando la prospettiva, si potrebbe dire che questa Biennale e il mondo, i linguaggi di cui è portatrice decreterebbero la fine di una certa idea dell’opera e dell’Arte Concettuale, che tanta parte ha avuto nella nostra arte nelle ultime decadi e tanta ne ha ancora: come si spiega altrimenti il Leone d’oro al Padiglione australiano se non come una formalizzazione concettuale del lutto passato? 

Padiglione Australia, courtesy La Biennale di Venezia

Anche se non del tutto (o per niente, come qualcuno pensa) riuscita, il senso di questa Biennale sta nella spinta a cambiare paradigma. Percorso già iniziato, come sappiamo, ma ancora in buona parte da scrivere. 

Dopodiché, personalmente ho trovato più interessanti alcuni padiglioni nazionali (il Benin, il Libano, l’Italia, la Gran Bretagna, l’Arabia Saudita, tra quelli che sono riuscita a vedere; dell’Egitto che sognavo e del Vaticano, causa affollamento, neanche a parlarne) di cui va riconosciuto il compatto allineamento, mai registrato prima, sui temi di Pedrosa con l’accentuazione verso il recupero del passato, dell’ancestrale, del primordiale, quando la natura non era corrotta e lo spirito viveva in armonia con l’ambiente. 

Ma non si tratta dell’enfasi nostalgica su un passato felix, come facilmente si potrebbe giudicare. Molti artisti, specie provenienti dal Sud del mondo e con visioni diverse dalle nostre, paiono concettualmente attrezzati per affrontare in maniera lucida le scelleratezze del nostro antropocene. 

Poi, in un tempo incerto come il nostro, la fascinazione del passato e del primordiale hanno una discreta (e ovvia) presa. Da questo punto di vista mi sembra di notare una convergenza anche nella mostra di Pedrosa allorché propone molti artisti vecchi o morti. È solo il tentativo di dare un’origine e un fondamento ai suoi temi o suggerisce implicitamente che quel passato, su cui l’Occidente non aveva ancora messo piede, è migliore del presente e del futuro?

La fascinazione del passato sembra ricorrere anche in altre mostre collaterali. Oltre una meritata Ola per il ficcantissimo progetto di Fondazione Prada, che scava nel tempo che fu di questo edificio oggi così glamour e per più di un secolo meta dei poveri in quanto Banco dei Pegni, il passato emerge forte in un’altra mostra molto celebrata, quella di Berlinde de Bruyckere. Qui l’evocazione di una catastrofe si colloca in un passato dove, irrimediabilmente, l’umano si è dissolto, ibridandosi con il non umano, con archetipi appartenenti al mondo animale, con qualcosa che, nella tragedia avvenuta, lo scavalca. E’ un progetto potente, ma soffre, a mio parere, di un’idea di perdita irrimediabile che alla fine l’artista congela. 

Come se ne esce? Guardando e imparando qualcosa da “Liminal”, la mostra di Pierre Huyghe ospitata a Punta della Dogana. Anche Huyghe, confermando alcuni temi su cui lavora da anni, ci mette davanti un passato, per giunta millenario. Fatto di fossili, di creature e concrezioni che hanno impiegato secoli, millenni per presentarsi ora ai nostri occhi. E anche lui, come abbiamo visto già molte volte, esplora quel territorio oscuro e scivoloso, ctonio dato dall’ibridazione tra umano e non umano – la scimmia nel bar giapponese (già vista varie volte) e altro – tra umano e post umano. Dove però c’è anche l’intelligenza artificiale. 

Pierre Huyghe, Camata, 2024, Courtesy the artist and Galerie Chantal Crousel, Marian Goodman Gallery, Hauser & Wirth, Esther Schipper, and TARO NASU

Tutto il progetto di Huyghe è governato e risolto in tempo reale dall’intelligenza artificiale. O forse non risolto, ma demandato ad essa, a quello che sarà il nostro futuro e che in realtà è già il nostro presente. Il passato, allora, non è solo quell’altrove dove tornare o dove non è più possibile tornare (de Bruyckere), il passato, anche millenario, il presente angoscioso alimentato da cellule tumorali è connesso al futuro. Un futuro che ancora non conosciamo, ma che esiste, che è tra noi, anche, o soprattutto, in quella valenza che ci sembra post umana. 

Ecco, se la Biennale di Pedrosa si fosse occupata anche di questo, sarebbe stata più viva. 

Certo, se Pedrosa avesse avuto i soldi di monsieur Pinault, come ce l’ha Huyghe, forse avrebbe fatto bingo. Forse. 

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