Adriano Pedrosa racconta la sua Biennale queer

Nel numero 130 di Inside Art, Pedrosa racconta ad Adriana Polveroni il suo punto di vista sulla rassegna veneziana che parla di outsider, queer e di stranieri ovunque

Come sarà la Biennale di Adriano Pedrosa? Sarà seria, perché lui è serio e rigoroso. Sarà nuova, perché porta a Venezia artisti mai visti, spesso sconosciuti o dimenticati, facendoci conoscere un mondo altro, diverso, sghembo, anomalo. Fuori dal coro. A cominciare da lui stesso. In un modo leggermente (e finalmente!) irrituale, Pedrosa si è messo in gioco in questa Biennale: Stranieri ovunque riguarda anche lui. Anzi, comincia da lui. Che è brasiliano, vicino alla cultura popolare, attratto da linguaggi che non sempre sono classificati come artistici: l’arte tessile, ad esempio, di cui ci farà vedere diverse opere, promettendoci stupore, scoperta, piacere.

E Pedrosa è straniero in quanto primo curatore della sessantesima Biennale di Venezia non etero. Come lui stesso si definisce, un curatore queer. Eccentrico nel senso etimologico dell’aggettivo: con un punto di vista fuori dal centro. Da qui Pedrosa per la manifestazione ha disegnato una costellazione che tiene insieme l’essere straniero, l’essere indigeno, l’essere queer e l’essere espressione di cultura popolare. Tutto fuori dal centro, insomma, se per esso si intende la prospettiva europea e angloamericana che per decenni ha indirizzato le scelte dei curatori. Tra gli oltre 330 artisti, la maggioranza viene da quell’arcipelago articolato che, in termini geopolitici, chiamiamo “Global South”, che comprende – Pedrosa li snocciola con orgoglio – Paesi e artisti che non hanno mai partecipato alla Biennale o che, ci sono passati, ma inosservati.

Queer significa anche questo: rovesciamento del banco. Apertura di nuovi orizzonti. Fluidità che vuol dire anche ingresso di quello che finora era sconosciuto. Forse non tutto ci piacerà, non sempre riusciremo a superare quella malcelata sopportazione di opere e pratiche artistiche che si imparentano con artigianato o folklore. Forse dovremmo fare uno sforzo per alfabetizzarci all’idea di “cultura popolare” tanto cara a Pedrosa. Forse sarà effettivamente una Biennale nuova. Diversa.

Ho incontrato Pedrosa all’inizio di febbraio, ecco cos’è venuto fuori dalla nostra conversazione.

Dopo la Biennale di Massimiliano Gioni, che ci ha fatto conoscere un mondo limitrofo all’arte allargando molto il suo campo, dopo la Biennale di Cecilia Alemani che ci ha fatto scoprire l’arte delle donne, la sua Biennale appare come la Biennale degli “Altri”, la Biennale del Global South. È d’accordo con questa lettura?
Gli altri è una categoria che nasce da una prospettiva europea, venendo dal Brasile, o da altri Paesi si è necessariamente “altri”. Gli indigeni brasiliani per esempio, che pure sono connessi alla cultura popolare, sono però considerati degli outsider, degli stranieri nel proprio Paese. E poi c’è la mia esperienza, la mia origine brasiliana di straniero proveniente dal Global South, importante anche per un curatore e direttore di un museo. Ma nell’essere straniero, che è il punto di partenza di questa Biennale, e nella cui parola convergono lo spagnolo, il francese, l’italiano, il portoghese, l’inglese, sta anche l’essere queer. Molti artisti di questa Biennale sono queer, mentre altri non provengono da tradizionali percorsi accademici, sono appunto quegli artisti popolari, come li chiamiamo in Brasile: artisti che vengono dal popolo. Aggiungo poi che nel Nucleo Contemporaneo c’è una maggioranza di artiste donne, non altrettanto nel Nucleo Storico e, da questo punto di vista, mi lego alla bellissima Biennale di Alemani che rappresenta uno snodo fondamentale nella storia di questa manifestazione.

Nell’essere straniero c’è il tema di una sessualità diversa da quella tradizionale. È importante che nella Biennale si parli di sessualità?
Il focus è sempre sugli artisti, al di là della loro identità sessuale. Io mi sono dichiarato il primo curatore queer della Biennale, guardo da tempo con interesse a questo mondo, non a caso nella Biennale di Istanbul del 2011 che ho co-curato c’era una sezione dedicata agli artisti queer, che spesso sono marginalizzati e addirittura perseguitati. Ho invitato alcuni artisti queer che provengono dall’Uganda, dal Kenya, dallo Zimbabwe ma li ho scelti perché il loro lavoro è complesso, interessante, significativo dal punto di vista concettuale, estetico, formale e non parla necessariamente della soggettività queer. Altri artisti queer e trans lo fanno, ma non è una regola e non deve esserlo. Se lo fosse, rinunceremmo all’astrazione. Ci sono artisti che lavorano con l’astrazione in maniera formale e che sono migranti. C’è l’esempio meraviglioso di Nedda Guidi, che ho scelto perché ha fatto un lavoro straordinario e non è mai stata in Biennale. Penso che sia un grande privilegio introdurre in Biennale un’artista di tale valore.

A proposito di artisti italiani, c’è un problema che riguarda proprio la Biennale, come altri grandi eventi internazionali: sono sempre meno presenti. Nella sua Biennale ce ne sono moltissimi che fanno capo alla diaspora (quindi forse poco italiani) e che sono per lo più sconosciuti. Ma, al di là di questi, lei ha fatto degli studio visit in Italia per conoscere giovani artisti? Mi spiego meglio: la Biennale l’ha invitata a fare questa ricerca, come avviene in tutte le Biennali del mondo?
Ho fatto degli studio visit a Bologna, Roma e Milano e ho visitato delle fiere, ho poi i miei advisor che sono molto introdotti nella scena contemporanea. Ma, proprio perché vengo dal Global South, sono interessato agli artisti della diaspora. Abbiamo 40 artisti nella sezione “Italian everywhere” e poi ce ne sono altri dieci di seconda generazione ma mi sono anche molto interessato ai giovani artisti italiani.

Lei si è dichiarato interessato all’arte tessile, a forme di creatività molto vicine all’artigianato, quindi a un’arte fortemente materiale. A me sembra però che a partire dal titolo della Biennale fino alle dichiarazioni su se stesso sia centrale nel suo lavoro la pratica dello statement.
Ho cominciato la ricerca proprio dalla frase di Claire Fontaine, che conosco da anni, dall’idea di straniero. Sono dieci anni che ce l’ho in mente. E pensavo che potesse essere molto significativo fare una mostra intitolata Stranieri ovunque proprio in Italia, dove questo tema è diventato sempre più rilevante, ma che nessuno ha mai affrontato. Poi ho pensato a tutti gli altri criteri: queer, indigeno, outsider…e, una volta fissati, è necessario essere coerente, fedele ad essi. Per esempio, non posso invitare una giovane artista, che pure amo molto, ma che non risponde a questi criteri. Poi, però, sviluppando come curatore la mia mostra e avendo altri interessi estetici, formali, come ad esempio l’arte tessile di cui possiedo anche una piccola collezione, naturalmente tutto questo viene fuori ma non come soggetto del lavoro. Il punto di partenza rimane Stranieri ovunque, una sorta di framework, di cornice di tutta la mia ricerca.

Un’ultima domanda che è naturalmente una provocazione: trattando di outsider e di queer non c’è rischio di bypassare le urgenze e i drammi che viviamo nella nostra epoca?
No, perché tutto questo sarà presente nella mostra. E posso affermare che si tratta del titolo più schiettamente politico per una Biennale di Venezia.

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