Biennale, perché è un buon segno che il mondo dell’arte batta un colpo

Il mondo dell’arte non ci sta. E, al di là se si è d’accordo o meno con la richiesta di escludere il padiglione di Israele dalla prossima Biennale di Venezia, la protesta, che finora ha raccolto più di 20mila firme, è un buon segno. Perché? Il mondo dell’arte è autoreferenziale, incapace di andare oltre il proprio grazioso ombelico e frequentemente piegato a logiche di mercato. Almeno queste sono le accuse che gli vengono rivolte. E spesso a ragione.

Quindi, al di là dei toni radicali della lettera ANGA, acronimo che sta per Art Not Genocide Alliance, che fa proprie le varie risoluzioni ONU contro la violazione dei diritti umani e non si arresta di fronte alle risposte evasive della Fondazione Biennale e a quelle puntute del Ministro del MIC Sangiuliano, che il mondo dell’arte batta un colpo è segno di vitalità. E che lo ribatte anche verso l’Iran, chiedendo l’esclusione anche del suo padiglione nazionale, per via della marcata violenza e repressione che caratterizzano la dittatura di questo Paese. 

Del resto la Biennale si è sempre fatta carico delle violenze che insanguinano il pianeta, è sempre stata il luogo dove l’arte ha espresso un pensiero limpido e senza sconti sui conflitti in atto, scavalcando i propri confini per lanciare un messaggio importante: che il mondo della cultura, e dell’arte in particolare, non sono indifferenti agli accadimenti del mondo. Non è un caso che la richiesta di ANGA sia stata firmata da tanta gente comune e che sia stata ripresa in questi giorni dai mass media, bucando una volta tanto quella cortina di ferro che in genere copre i fatti dell’arte nell’opinione pubblica.

L’ultimo episodio in cui la Biennale si è fatta sentire risale a due anni fa, quando il curatore e gli artisti del padiglione russo si dimisero per protesta contro l’invasione di un Paese sovrano quale è l’Ucraina. Scelta appoggiata pienamente dalla stessa Biennale. E, prima ancora, il Sudafrica è stato bannato dal 1950 al 1968 e poi di nuovo escluso, allineandosi a una risoluzione dell’ONU fino al 1993, quando l’apartheid è stato dichiarato fuorilegge. 

Ma se andiamo indietro nel tempo è nel giugno del ’68 che la Biennale fa sentire con forza la sua voce. Quando la mattina del 18 giugno si aprono i cancelli per la vernice degli addetti ai lavori, la scena non è delle più entusiasmanti, almeno per chi era arrivato per vedere le opere. Che invece di essere appese, giacciono a terra, rivoltate, e molti padiglioni sono vuoti o chiusi. 

Quell’anno la protesta era figlia della più generale contestazione del ’68, ma si concentrò su alcuni punti che caratterizzavano la Biennale. Gli artisti chiedevano l’abolizione dello statuto fascista che ancora governava la manifestazione, la chiusura dell’Ufficio vendite, visto come esempio concreto della mercificazione dell’arte. Chiedevano anche la trasformazione della mostra in un laboratorio di ricerca e sperimentazione attivo tutto l’anno e l’abolizione dei Gran Premi che furono smantellati per poi tornare, come Leoni d’Oro e d’Argento, nel 1986. E non basta, ci furono scontri con la polizia e il blocco della serata inaugurale. 

Insomma, quando ci si mettono gli artisti non scherzano. Ma stavolta è diverso: che la protesta sia partita dal mondo dell’arte, coagulando intorno a sé una rete di consenso, è un fatto nuovo e importante.