Velare e dis-velare, a Roma una mostra sull’opaco

La galleria romana Curva Pura ospita la mostra 'Di stanza in stanza', una riflessione sul velo con le opere di due artiste, Julie Rebecca Poulain e Rita Mandolini

“Velare è dis-velare” è il titolo del testo critico di Nicoletta Provenzano per la mostra a sua cura Di stanza in stanza, che vede protagoniste Julie Rebecca Poulain e Rita Mandolini presso la galleria Curva Pura a Roma, ancora aperta fino al 13 febbraio.

La curatrice inizia dalle parole di Heidegger ne “L’origine dell’opera d’arte”, mettendo in luce la connessione tra il celare e lo svelare: ”Il nascondimento, nel senso del disdire, non è mai solo il confine via via raggiunto dalla conoscenza; esso è, innanzitutto, l’inizio della stagliatura dello stagliato”.

Il velo che in realtà rivela è proprio l’elemento comune delle due ultime ricerche delle artiste, che ci conducono in un viaggio intimo nella nostra interiorità, tra le profondità marine, geologiche e allo stesso tempo umane delle tele nere di Mandolini, e lo spazio rarefatto e sospeso delineato dai drappi luminosi analizzati in frammenti fenomenici da Poulain. Ciò che colpisce da subito non è solo la dualità espressa nel contrasto buio-luce dei due linguaggi, ma soprattutto il comune richiamo ad un’osservazione accurata, contemplativa, lenta che le opere sembrano richiedere nella loro dimensione delicata e diretta alle corde più profonde. Entrambe le pittrici (una romana, l’altra francese) portano avanti una pratica dove l’attesa dell’affiorare spontaneo dell’ispirazione è importante, e nella quale dunque lo “spirituale” e una forte connessione con loro stesse e le proprie radici predominano. 

Nelle tele di Julie Rebecca Poulain il velo appare nella sua essenza fisica a coprire una finestra. Si tratta quasi del processo inverso del quadro nella sua concezione classica di “finestra aperta sul mondo”- espressa da Leon Battista Alberti nel De Pictura. La fenêtre è il titolo del ciclo di lavori iniziato nel 2021, durante il quale l’artista – ci racconta – ha ricoperto quasi interamente le pareti del suo studio di queste finestre velate, andando a ricreare una sorta di capanna, un luogo di protezione e di riposo. In questa serie Poulain abbandona la problematicità dei suoi lavori precedenti, per soffermarsi sul presente e sul tempo inteso come evento: osserva la finestra del suo studio sulla quale appunta un lenzuolo, creando pieghe ogni volta differenti, nelle varie ore del giorno, cercando di cogliere e fermare sulla tela il frammento spazio-temporale naturale del passaggio della luce, delle ombre e del vento che gonfia il tessuto.

La palette dei colori ad olio si riduce a due, massimo tre cromie, così come il campo di indagine ad un solo segmento spaziale, in un lavoro ripetuto (a volte ossessivo sullo stesso dettaglio), che riporta l’artista alla pratica accademica dello studio del panneggio, ma allo stesso tempo la apre ad una ricerca più grande e potenzialmente inesauribile: quella del fainòmenon – ricerca che appassionò gli artisti di tutti i tempi, dall’indagine degli antichi greci  sulla mymesis, passando allo sforzo degli artisti del ‘400 nel cogliere la natura attraverso la scienza prospettica in parallelo con lo studio della luce dei fiamminghi, lo sfumato leonardesco volto a coglierne il dinamismo incessante, il ritorno alla natura proprio dell’inizio del ‘600 incarnato dalla figura di Caravaggio, fino ad arrivare alle tele di Monet dedicate alle Ninfee o alla Cattedrale di Rouen; solo per fare alcuni esempi.

Il fascino per il tessuto accompagna Poulain da molti anni e l’ha condotta in diverse ricerche parallele, come quella intitolata “le talith était une femme” (che ruota attorno ad un antico scialle ebraico appartenente alla sua famiglia che lei immagina  in una maniera un po’ provocatoria legato ad una sua antenata, pur essendo un accessorio prettamente ad uso maschile) o quella dedicata agli chiffons (i suoi stracci di lavoro che raccoglie con dovizia come oggetti carichi di memoria e specchio, traccia viva dei suoi quadri).

L’ispirazione iniziale di questo interesse per le étoffes deriva da una mostra da lei vista a Parigi dedicata a Clérambault (celebre psichiatra francese che Lacan definiva proprio maestro) nelle vesti di fotografo. Figura interessante di orientalista, nei suoi scatti Clérambault aveva colto le donne viste in Marocco avvolte nei lori manti, soffermandosi sull’aspetto plastico del drappo. Allo stesso tempo nei suoi scritti – che l’artista sta continuando ad approfondire – parla anche di un ”érotique des étoffes”, dunque della loro risonanza psicologica. La suggestione per l’aspetto materico, emotivo e tattile della stoffa è molto importante per Poulain, la quale dipinge quasi un tessuto su tessuto, scegliendo di utilizzare appositamente la tela grezza.

All’essenza atmosferica dei quadri di Julie Rebecca Poulin fa da contraltare la profondità degli abissi degli oli su tela di Rita Mandolini. Il velo qui è un frame che offusca la vista e rende poco definite le figure al centro della campitura, è un susseguirsi di pennellate tono su tono leggibili come stratificazioni terrigne e carbonifere in cui il soggetto somiglia ad un fossile incastonato all’interno, ad un’ambra, ma d’altra parte ci rammenta un accumulo interiore di esperienze, vicissitudini, memoria: il concretarsi del tempo che rende i ricordi, i sogni, i desideri qualcosa di impalpabile eppure fortemente presente e vitale in ciascuno di noi.

Anche Mandolini nutre una passione per le stoffe, però nella loro accezione di ornamento, assieme a tutti i travestimenti e camuffamenti soprattutto femminili che grandi scrittori come ad esempio Flaubert hanno dettagliato fin nei minimi particolari, dando della donna una descrizione psicologica attraverso quel nastro, quel fiore, quell’orpello che la adornava.

Provenendo da una famiglia che produceva artigianalmente parrucche per il mondo dello spettacolo, la pittrice è attratta dal potenziale guizzo di una seta, l’armonia di un broccato, i percorsi di un ricamo, e questi stessi motivi sembrano stare per affiorare al centro delle sue tele scure, come vortici vivi nei loro girali multiformi. Sono espressione di uno sforzo di emergere in superficie: che sia quello di una donna che si mette in posa davanti a uno specchio e si prepara per apparire in un determinato modo, quando agli occhi degli altri il suo aspetto cambierà di certo, che sia quello di un’anima fragile per “uscire fuori”, o quello di una persona che fruga nella propria scatola dei ricordi alla ricerca di quel momento passato che può affiorare solo con dei contorni labili e sfumati.

La ricerca dell’artista si sofferma da sempre sulla diatriba tra interno ed esterno, e se da un lato è affascinata dal mondo dell’”apparire” femminile, dall’altro si volge alle profondità del corpo. Nella sua personale “Disturbo di conversione” (Galleria Bruno Lisi, Roma, 2019) a un polittico caratterizzato dalle sue consuete pennellate nere questa volta più accentuatamente figurative, accosta la nota olfattiva di un massiccio groviglio di cavi di liquerizia, gioioso ricordo infantile quanto rimando ad interiora contorte e pesanti nella loro sproporzione.

Il viaggio all’interno del corpo continua in un’altra opera della mostra del 2019: un particolare ventaglio, che nella sua seduttiva e leggera apparenza cela un “paesaggio”, un’ecografia uterina dell’artista che lei intende quale autoritratto. Tra anatomie e belletti, il corpo nel suo involucro scompare. Rimane la psychè, sia essa la rispondenza di un ornamento o delle interiora all’incontro con l’altro e alla conseguente emotività, sia quel respiro che anima tutte le cose.

Le presenze avvolte nelle pennellate dell’artista sono in definitiva una vibrazione catturata, l’energia in potenza che appartiene ai viventi, un fenomeno velato, puro, che ci sfugge ma che per questo è ancora più potente. In fondo la mostra ruota attorno al tema dell’inafferrabile, a quell’essenziale che è invisibile agli occhi di cui parlava Antoine de Saint-Exupéry.

Di stanza in stanza
fino al 13 febbraio
Curva Pura – Via Giuseppe Acerbi 1a, Roma
info: zero.eu