Fino al 5 novembre sarà visitabile presso l’Orangerie della Villa Reale di Monza la mostra Banksy Painting Walls. An Unauthorized Exhibition curata da Sabina de Gregori e dedicata al misterioso artista di Bristol, noto al grande pubblico soprattutto per la sua identità sfuggente (è un lui? è una lei? è una sola persona o un gruppo di artisti?) e per le sue opere di street art che compaiono in giro per il mondo in modo improvviso e imprevedibile.

La linea curatoriale adottata per questa “mostra non autorizzata” (come viene definita nel titolo) si concentra sulla contraddizione che sta vivendo negli ultimi anni l’arte di Banksy: un’arte che nasce fuori dai luoghi istituzionali e ufficiali (i musei, le gallerie) ma che è stata ormai inesorabilmente fagocitata da quello stesso sistema che intendeva criticare; un’arte originariamente clandestina e furtiva che finisce, come per una beffarda legge del contrappasso, a essere mercificata e privatizzata, venduta e ammirata da folle di visitatori adoranti.
Visitatori adoranti o, potremmo dire, pellegrini in viaggio verso l’oggetto della loro Fede. Questo richiamo alla religione, come dichiarato dalla curatrice nel pannello introduttivo collocato all’inizio del percorso, permea l’intera mostra che occupa l’ampio ambiente rettangolare dell’Orangerie della Reggia di Monza: esso, infatti, viene impiegato come se fosse la navata di una chiesa che i visitatori-fedeli sono chiamati a percorrere in tutta la sua lunghezza, spostandosi da un’opera all’altra in una sorta di via crucis artistica (peraltro, il riferimento a modelli iconografici della tradizione cristiana e la loro rielaborazione ironica e polemica è un elemento sfruttato da Banksy in diverse opere presenti in mostra, come Toxic Mary del 2003 o Christ with Shopping Bags del 2004).


Lo spazio dell’Orangerie si presta particolarmente bene a questo poiché l’ingresso dei visitatori si trova presso uno dei suoi lati corti in corrispondenza della Rotonda, una piccola struttura a pianta circolare affrescata da Andrea Appiani che, nel progetto di Giuseppe Piermarini, collegava con un passaggio segreto il braccio sinistro della Villa con l’Orangerie. Così, i visitatori che vengono a vedere la mostra di Banksy si trovano a sostare presso la Rotonda nell’attesa di pagare il biglietto e iniziare il percorso: un vero e proprio filtro, che ricorda i narteci delle basiliche paleocristiane, tra il caos profano del mondo esterno e la sacralità dell’arte custodita all’interno.
Ma la metafora con l’architettura ecclesiastica non termina qui poiché, una volta superato l’ingresso e attraversata la navata che ripercorre l’esperienza artistica di Banksy dalla fine degli anni ’90 a oggi, si giunge a quello che generalmente nelle chiese è lo spazio occupato dall’altare. Al termine del percorso della mostra, infatti, il visitatore è invitato a entrare in una saletta – separata dal resto tramite una sorta di tramezzo – dove sono collocati i tre pezzi forti dell’esposizione, disposti come pale d’altare ai lati dello spazio: si tratta di Heart Boy (2009), Season’s Greetings (2018) e Robot Computer Boy (2010). Tali opere sono state realizzate da Bansky con la pittura spray sui muri esterni di vari edifici (rispettivamente a Londra, in Galles e nel Devon) e poi rimosse in seguito alla demolizione dell’immobile oppure vendute dai proprietari e, infine, acquistate e musealizzate.

Questo spazio rappresenta il fulcro – il sancta sanctorum – dell’intera mostra e punta a spostare l’attenzione dello spettatore sul tema che maggiormente caratterizza l’arte di Banksy e, più in generale, la Street Art oggi: i tre Wall Paintings sono infatti accompagnati da un pannello firmato dalla restauratrice Giulia Mariana Limiti la quale, in seguito a una breve spiegazione della tecnica dello strappo e del suo utilizzo nella storia a fini conservativi, riflette sulla liceità di questa operazione nel caso di opere di Street Art che si configurano come strettamente legate al contesto urbano nel quale sono state realizzate. Quanto è lecito spostare opere di Street Art in contesti espositivi e museali anche se per fini puramente conservativi? Quanto questa operazione può alterarne il significato e il valore? Difficile trovare una risposta definitiva a questi interrogativi e, infatti, Limiti non fornisce una soluzione (per quanto concluda il suo contributo sottolineando l’importanza di conservare le opere d’arte al fine di trasmetterle alla posterità). Sta dunque a ognuno di noi provare a elaborare una propria idea personale, una propria interpretazione, circa questo fenomeno artistico così sfaccettato e ambiguo di cui Banksy è senz’altro uno dei protagonisti più significativi.
La mostra nel suo complesso evidenzia quindi come Banksy materializzi tale ambiguità con le sue opere che valgono e smuovono milioni di dollari in tutto il mondo ma che, al contempo, nascono come un’aspra critica al capitalismo, al consumismo e a tutte le brutture che la società occidentale ha contribuito ad alimentare in nome del profitto economico. In tale logica si collocano appunto le opere presenti nella mostra monzese tra cui, per esempio, Tesco Soup Cans (2006) che svolge una sorta di post-produzione (per usare un termine caro a Nicolas Bourriaud) della famosa Campbell Soup di Andy Warhol ribaltandone però completamente il significato: mentre l’opera di Warhol si configura come sostanzialmente indifferente alla critica sociale, la litografia di Banksy si scaglia proprio contro il consumismo e la serialità della produzione di beni su scala industriale. Altro esempio è costituito dai gadget e dalle fotografie di Dismaland. Bemusement Park (2015), “un parco a tema familiare non adatto ai bambini” estremamente tetro e inquietante (una sorta di versione parallela di Disneyland creata clandestinamente nel Somerset) che ribalta la vuota gaiezza dei grandi parchi dei divertimenti – emblemi del consumismo rivolti prevalentemente alle famiglie con bambini – e sfrutta anche l’occasione per spostare l’attenzione su temi caldi dell’attualità. Infatti, dopo circa un mese dalla sua inaugurazione, Dismaland è stato smantellato e i materiali di risulta sono impiegati per costruire un villaggio non autorizzato per migranti a Calais (ecco dunque che la clandestinità non è solo una caratteristica specifica dell’operato di Banksy ma anche uno dei temi trattati dalle sue opere).

La riflessione sui problemi della contemporaneità svolta da Banksy si concentra poi anche sulla critica alla violenza, in tutte le sue forme: la violenza della guerra con opere come Walled Off Hotel (2017) sul tema del conflitto israeliano-palestinese o Wrong War(2003); la violenza sistemica e normalizzata che permea la nostra quotidianità (è il caso di Strawberry Donuts del 2009, che si scaglia in particolare contro la violenza delle forze dell’ordine negli Stati Uniti, rappresentate emblematicamente proprio dalla famosa ciambella glassata che spesso compare nei film e nei cartoni animati sulle scrivanie dei poliziotti); la violenza commessa dall’uomo contro gli animali e contro l’ambiente, con opere come Laugh now (2003) o HMV – His Master’s Voice (2003).
Dunque, lungo la navata-esposizione, i visitatori-penitenti sono chiamati a confrontarsi con i problemi del mondo di oggi, analizzati in modo ironico ma al contempo implacabile da questo artista che ha fatto dell’assenza di una identità precisa (di un nome e di un cognome, di un volto riconoscibile) l’essenza della propria identità artistica. Un’artista estremamente sfuggente e ambiguo, outsider del sistema dell’arte e delle sue istituzioni ma al contempo dominatore del mercato artistico e delle sue quotazioni, che ha dimostrato come l’arte si possa fare con tutto, in ogni luogo e – soprattutto – come essa abbia facoltà di essere scomoda e sgradevole.

D’altronde, nota ironicamente lo stesso Banksy, l’anagramma della parola “art” è “rat” e i topi «esistono senza il consenso di nessuno, sono odiati, braccati, perseguitati. Vivono in silenziosa disperazione tra il sudiciume. E tuttavia sono in grado di mettere in ginocchio intere civiltà. Se sei sporco, insignificante e senza amore, allora i ratti saranno il tuo modello». Come i topi, così anche Banksy.