L’altra metà delle Neoavanguardie, una conversazione con la storica dell’arte Raffaella Perna

Va dato il merito alle ricerche sull’arte italiana intraprese negli ultimi decenni di aver imboccato una direzione di ri-centralizzazione di alcune pratiche e di studi sugli anni Sessanta e Settanta che fino a poco tempo fa erano rimasti a margine dei libri di storia dell’arte.

Se è vero che la presenza dell’Arte Povera rimane dominante nel panorama artistico del contemporaneo italiano dalla metà del secolo scorso a oggi, va detto pure che la riscoperta, anche in ambito accademico, di nomi, correnti e autori coevi al movimento poverista ha contribuito a mettere insieme i pezzi di una storia italiana discontinua, parziale e spesso anche di parte.

Mirella Bentivoglio, Monumento, 1968, courtesy Archivio Mirella Bentivoglio and Gramma_Epsilon Gallery, Athens, photo Riccardo Ragazzi, displayed in the exhibition Re-Materialization of Language 1978-2022, 2023, Fondazione Antonio Dalle Nogare, Bozen

«Negli ultimi dieci anni – spiega Raffaella Perna, che insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università di Roma La Sapienza – sono usciti una serie di saggi che hanno rimesso in discussione questo canone, più che altro lo hanno allargato, mostrando come in Italia ci fossero in quel periodo una serie di pratiche in dialogo aperto con il movimento. Indagini come quelle di Lara Conte hanno contribuito a storicizzare l’Arte Povera dall’esterno e questo ha fatto sì che se ne potessero vedere molto di più le relazioni con artisti non necessariamente inseriti nel canone celantiano, penso, ad esempio, a Paolo Icaro o Renato Mambor».

Questa necessità, più che tendenza, di riportare in superficie storie sommerse e di rileggere quegli anni con un approccio più inclusivo, si è manifestata in tempi recenti attraverso tentativi, seppure a volta timidi, di svincolare il racconto dell’arte italiana da un’unica narrazione dominante. Pensiamo a progetti di ricerca anche molto recenti come il convegno del 2023 L’Archivio e la storia. Una relazione non lineare, curato da Carla Subrizi e ideato insieme a Gianfranco Baruchello, o all’organizzazione di mostre internazionali che, dopo sessant’anni dall’ingombrante pietra miliare posata da Celant con Identité italienne – L’art en Italie depuis 1959, hanno cercato di portare oltre i confini nazionali le esperienze marginali di quegli anni.

Ketty La Rocca, Le mie parole e tu?, 1971, © Archivio Ketty La Rocca | Michelangelo Vasta, displayed
in the exhibition “Ketty La Rocca. Se io fotovivo. Opere 1967-1977“, 2022, Camera – Centro Italiano
per la Fotografia, Turin

«L’esposizione curata nel 2022 da Valérie Da Costa al MAMAC di Nizza è un buon esempio di quanto sia importante valorizzare all’estero voci valide e meno conosciute del nostro passato e presente. Penso ad artiste come Marisa Busanel, che ha fatto esperienza nella Scuola di Piazza del Popolo ma che dal ’93 non ha avuto più mostre a lei dedicate ma anche nomi che hanno avuto negli ultimi anni un’attenzione maggiore come Tomaso Binga e Ketty La Rocca».

Sia Binga sia La Rocca sono il paradigma di una ricerca che in quel determinato periodo storico avanzava, più latente ma non per questo meno incisiva, a cavallo tra le arti visive e le sperimentazioni sul linguaggio, con un particolare focus sul corpo della donna. «Non dimentichiamoci – ricorda Perna – che il 1978 è l’anno di Materializzazione del linguaggio, in cui Mirella Bentivoglio, fondamentale nel panorama italiano anche per la sua attività curatoriale, mette in mostra la sua ricerca iniziata parecchi anni prima sulle esperienze verbovisive. Ed è significativo che l’ultima edizione della Biennale d’Arte abbia dato spazio al suo personaggio con una rilettura di quel progetto».

Mirella Bentivoglio, Ostensorio vuoto, 1972, photo Luana Rigolli, displayed in the exhibition “Fare Uno“, Galleria Erica Ravenna, Rome, 2023

Una nuova dimensione linguistica veniva a delinearsi per dare spazio a voci femminili che avevano l’obiettivo preciso di ridefinire un’identità al di fuori delle costrizioni patriarcali favorite dalla comunicazione tradizionale. Sono tutte artiste che attraverso il mezzo ora grafico, ora fotografico ora gestuale, abbracciano le istanze del neo-femminismo, avvicinandosi alle riflessioni teoriche di pensatrici come Carla Lonzi che, peraltro, proprio nel 1970 costituiva attraverso il Manifesto di Rivolta Femminile uno dei primi gruppi femministi italiani, insieme a Carla Accardi e Elvira Banotti.

«Carla Lonzi – precisa Perna – ha seminato un pensiero che, forse proprio per la sua radicalità, colpisce tutt’oggi l’immaginazione di una serie di artisti: penso a Silvia Giambrone oppure a Claire Fontaine. E poi va detto che le esperienze degli anni ’70 connesse soprattutto con la politica e con la militanza hanno sempre avuto il supporto di un sistema, una rete, come le Case delle donne, i collettivi politici che hanno fatto sì che non restassero completamente in ombra, anche se avevano meno attenzione in ambito istituzionale e accademico».

Ketty La Rocca, Fotografie dell’azione Approdo, Autostrada A1 per Firenze Nord, 1967, © Archivio Ketty La Rocca | Michelangelo Vasta, displayed in the exhibition “Ketty La Rocca. Se io fotovivo. Opere 1967-1977“, 2022, Camera – Centro Italiano per la Fotografia, Turin

Scavando nei materiali di archivio riferiti alla seconda metà del XX secolo, sul tramontare delle grandi narrazioni, viene fuori sempre di più un insieme plurale di vedute molto simile al nostro frammentato contemporaneo, un territorio di sperimentazioni per certi versi ancora meno neutrali delle rivoluzioni compiute dalle così etichettate neoavanguardie di quegli anni.

«L’interesse recente per i collettivi – spiega Perna – mi sembra un altro elemento da tenere in conto emerso di recente. Mi riferisco in particolare al gruppo XX, alle artiste napoletane che hanno esposto da Lucio Amelio. Ad ogni modo – precisa la storica dell’arte – tutto questo non vuol dire che l’Arte Povera non sia stato un movimento dirompente ma credo che sia anche doveroso che a questa storia se ne aggiungano altre. In questa ricostruzione storico-artistica l’oralità ha un ruolo centrale. Intervistare, conoscere in prima persona i protagonisti di un’intera generazione che via via se ne stanno andando».

Tomaso Binga, Alfabetiere murale, detail, courtesy Galleria Tiziana Di Caro, Naples, photo Amedeo Benestante, displayed in the exhibition “Re-Materialization of Language 1978-2022“, 2023, Fondazione Antonio Dalle Nogare, Bozen