Venezia e l’icona. La mostra a Punta della Dogana con opere della Pinault Collection

Con opere provenienti dalla Pinault Collection, la mostra riflette sul tema dell’icona e dello statuto dell’immagine nella contemporaneità

Venezia rappresenta da sempre una delle capitali mondiali dell’arte sopratutto nel mondo del contemporaneo grazie ad importanti location come Punta della DoganaIcônes è la nuova mostra visitabile fino al 26 novembre, a cura di Emma Lavigne, direttrice della Pinault Collection, e Bruno Racine, direttore e amministratore dele­gato di Palazzo Grassi – Punta della Dogana. La mostra collettiva, con opere provenienti in particolare dalla Pinault Collection, invita a una riflessione sul tema dell’icona e dello statuto dell’immagine nella contemporaneità. Con “icona” si è voluto dare due accezioni: quella puramente  etimologica che rimanda ai concetti di immagine e somiglianza, e quella di utilizzo comune riferita sopratutto alla pittura religiosa che caratterizza il cristianesimo orientale. Ma non solo perché in realtà ad oggi il termine è stato associato all’idea di modello, figura emblematica, oggetto di ammirazione e imitazione. Una mostra strutturata per dare attenzione alla relazione tra Venezia e l’icona, consapevoli del lungo viaggio storico che ha percorso con diverse influenze culturali in particolare bizantine, gotiche e fiamminghe in grado di rimarcare il collegamento tra Oriente e Occidente. Un tramite che ancora oggi ricorda come Venezia è effettivamente un incrocio in cui orizzonti molteplici si intersecano e si ibridano, fornendo così un terreno fertile per la creazione.

from left to right: Rudolf Stingel, Untitled, 2010Pinault Collection © Rudolf Stingel. Courtesy of Gagosian Gallery; Danh Vo, Christmas (Rome)2012, 2013, Pinault Collection; Rudolf Stingel, Untitled, 2009, Pinault Collection, Courtesy of the artist. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti © Palazzo Grassi, Pinault Collection

La mostra ha quindi lo scopo di scovare e rilevare l’essenza dell’icona come vettore del passaggio verso una possibile trascendenza, invitando ad altri stati di coscienza, contemplazione, meditazione, raccoglimento, attraverso un percorso di oltre 80 opere, tra capolavori della Pinault Collection, lavori mai esposti prima di quest’occasione e installazioni site-specific di 30 artisti di diverse generazioni, nati tra il 1888 e il 1981. Tutto è esposto come per creare dei veri spazi assestanti ma comunicativi, tante pause o “cappelle” nell’era della saturazione di immagini e della loro appropriazione indebita, attraverso i vari medium comunicativi come pittura, video, suono, istallazione, performance e stabilisce dialoghi inediti tra artisti emblematici della Pinault Collection, tra cui David Hammons e Agnes Martin, Kimsooja e Chen Zhen, Danh Vo e Rudolf Stingel, Sherrie Levine e On Kawara. 19 sale suddivise in 5 macrogruppi descrittivi. Lavori e tematiche eccezionali come in Spazio magnetico troviamo Lucio Fontana, Lygia Pape Donald Judd nella Sala 1. «Non ho intenzione di fare un dipinto: voglio aprire uno spazio – diceva Fontana – creare una nuova dimensione dell’arte, entrare in rap­porto con il cosmo che si espande all’infinito oltre la limitata superficie del dipinto». I concetti spaziali generano una situazione meditativa che invita a un’esperienza fenomenologica, la sua riflessione sull’idea di infinito rimette in discussione le credenze religiose e la finalità stessa dell’arte, rendendo al contempo concreta l’essenza della forma e dello spazio del sacro.

Lee Ufan, Tea in the Field, 2023 © Lee Ufan by SIAE 2023, Courtesy of the Studio Lee Ufan. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Sensibilità ugualmente sottesa al lavoro di Lygia Pape: ispirata dai raggi di luce che penetrano nell’oscurità e nella densità della foresta tropicale come nella penombra delle chiese o delle cattedrali, ma anche dall’architettura delle ragna­tele che tessono reti tra la vita e la morte, l’artista brasiliana incanta lo spazio con le sue Ttéia di fili d’oro tesi in un’illuminazione quasi irreale in uno “spazio magnetico”, secondo le parole dell’artista, come se “diventasse vivo”. Anche Donald Judd, nella sua ricerca minimalista, riduce il simbolismo della croce e dell’oro per con­servarne solo la struttura e il colore giallo che irradia i quattro cubi di acciaio Corten. Sempre in linea, nella seconda sala, nella Quinta del Sordo di Philippe Parreno, il suono e la luce rivelano, riportandole in vita, i quattordici dipinti neri realizzati da Francisco Goya nella sua casa vicino a Madrid tra il 1819 e il 1823. In contrasto con la brillantezza mistica dei cicli di raffi­gurazioni religiose che aveva eseguito per i re e per la Chiesa durante la sua carriera, l’artista crea, direttamente sulle pareti, dipinti a olio in cui predomina il nero, sfumato di ocra e di terra. Passando alle Sale da meditazione incontriamo Lee Ufan e grazie al suo pensiero sull’immaterialità dell’opera che si nutre delle spiritualità e delle filosofie orientali, l’artista rappresenta un pioniere e teorico del Mono­-ha. Impregnato del pensiero di Merleau-Ponty e Foucault, ma anche della filosofia religiosa di Nishida Kitaro, Ufan aspira a creare un’arte che sia espressione delle specificità dell’universo psico­sensoriale dell’Estremo Oriente. La quarta sala ospita Camille Norment, dove nell’epoca della proliferazione delle immagini, alcune opere generano ambienti sonori, cappelle immateriali che coinvolgono l’ascolto più profondo e rendono percepibili altre immagini, sensazioni e affetti. La musica si impadronisce dei corpi nell’opera, evocando lo spazio di una cappella. L’installazione multisensoriale Prime di Norment è composta da panche di legno simili a quelle delle chiese, che emettono vocalizzi a contatto e attraverso le persone che le sollecitano. Il visitatore entra in uno spazio che invita a una sosta comune, dove il suono è espressione di un’energia percepita e udita, poi ritrasmessa attraverso aria e legno, corpi e superfici. Sdraiarsi sulle panche é entrare nell’opera stessa e capirne in pieno il significato.

from left to right: Danh Vo, Sanyo, 2010; untitled, 2021, Pinault Collection, Courtesy of the artist. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Poco dopo entriamo nel mondo di Edith Dekynd in grado di catturare le trasformazioni naturali di oggetti carichi di sim­boli di libertà e di vita che, perfino nel loro deterioramento, esprimono una volontà di resistenza e la forza del potere creatore. Ombre indigène con le ondulazioni di una bandiera costituita da capelli neri che ondeggiano al vento, issata sull’isola della Martinica, vicino alla riva, ci ricorda che nel 1830 fu teatro del naufragio di una nave impegnata nella tratta clandestina con a bordo un centinaio di schiavi africani. Nella Sala 8 con Francesco Lo SavioJames Lee Byars, viene messa in corrispondenza la riflessione sulla luce e la dematerializzazione dell’opera d’arte attraverso il monolite cilin­drico di Lo Savio che sembra composto di luce, tale è il bagliore prodotto dalle foglie d’oro che lo rivestono e che irradia la stanza: The Golden Tower è come un monumento dedicato all’umanità e alla sua crescita spirituale. Mentre Lee Byars, attraverso la sua scultura, ha voluto stabilire un legame cosmico tra la terra e il cielo. In quanto materializzazione del sacro, l’oro interviene a più riprese nella sua pratica, come in The Philosophical Nail, un chiodo dorato in una teca di mogano. Il percorso continua con Time Measures, un insieme di trentaquattro fotografie nato dall’interesse che l’artista indiana Dayanita Singh ha da tempo per gli archivi cartacei. I trentaquattro fagotti annodati, le cui differenti sfumature di rosso sbiadito testimoniano tanto il tempo passato quanto l’importanza del loro contenuto riservato, custodito al riparo dagli sguardi, sono stati scoperti in un archivio indiano. I documenti impacchettati restano, però, per noi sco­nosciuti e inaccessibili, ripiegati in un lembo di tessuto a sua volta chiuso da un nodo. Anche Danh Vo comprende il mondo come un archivista. Le sue instal­lazioni, che incrociano storia personale e memoria collettiva, esplorano i processi di costruzione di identità, eredità e valori culturali.

Con un rigoroso collezionismo, raccoglie fotografie, ricordi, frammenti, oggetti e testimonianze della sua vita personale. Ne risultano installazioni dove ogni oggetto ha senso, interrogando le diverse rappresentazioni dell’identità e della storia. L’opera di Kimsoojasi è ospitata nel torrino dell’antica dogana da mar che sovrasta il bacino di San Marco, To Breathe-Venice attua uno sdoppiamento vertiginoso del volume interno della torre. Gli specchi disposti al suolo unificano lo spazio, conferendogli al contempo una sensazione di assenza di gravità. La polifonia in cui si intrec­ciano canti tibetani, islamici e gregoriani completa questa esperienza che tende alla trascendenza. Si riesce ad approfondire l’architettura dando il via ad un focus per meta­bolizzarla in un organismo che sembra liquido. Un sentirsi vacillare nell’instabilità lasciando che vi si formi un vuoto pensato come lo spazio interstiziale essenziale alla dialettica dello Yin e dello Yang, alla base della vita. «Vorrei creare opere – dice l’artista – che siano come l’acqua e l’aria che non possono essere possedute». Poco prima della metà del percorso espositivo, nella Sala 6, possiamo osservare i lavori di Agnes Martin e David Hammons. Quest’ultimo come un alchimista, trasforma oggetti abbandonati, recuperati per strada, in potenti evocazioni dell’immaginario urbano, creando l’incontro tra riferimenti disparati provenienti tanto dalla storia dell’arte quanto dallo spazio cittadino. Al contrario, Martin dipinge immagini metafisiche ispi­rate a diverse spiritualità orientali. Successivamente, Robert Ryman utilizza il bianco come strumento privilegiato delle sue variazioni plastiche. «Non penso neanche di dipingere dei quadri bianchi – affermava l’artista statunitense – il bianco è solo un mezzo per esporre altri elementi della pittura. Il bianco permette ad altre cose di diventare visibili». L’opera è connaturata al suo ambiente, alla sua luce, e trasforma la pittura in un’esperienza “di illuminazioni, incanto, benessere, precisione”.

L’undicesimo spazio, il Cubo dell’architetto Tadao Ando, nel cuore di Punta della Dogana, è dedicato al dialogo tra Danh Vo e Rudolf Stingel, le cui opere sono come impronte circondate da un’aura di mistero. Sospesi nel cuore dello spazio centrale, delle pezze di velluto decolorate dalla luce e dal tempo, provenienti dai musei del Vaticano, preservano la traccia degli oggetti religiosi che erano stati poggiati sulla superficie di questi tessuti, lasciando indovinare, grazie all’impronta, la disposizione geometrica di crocifissi, calici, pissidi o ostensori dalle forme elaborate. Queste pelli delicate dalle presenze fantomatiche, recuperate da Danh Vo, esprimono una tensione non appena vengono mostrate: in un cumulo informe sono paradossalmente al riparo, mentre una volta distese nello spazio sono inesorabilmente esposte alla propria lenta distruzione operata dalla luce. Anche le opere di Stingel indagano i misteri della creazione e dell’apparizione di un’immagine. Le superfici dei suoi dipinti, dove sono conservate le tracce di gesti diversi, oscillano tra leggerezza aerea e spessore della materia. L’artista ha anche realizzato un calco di un frammento di una delle sue opere dove il pubblico era invitato a lasciare liberamente le proprie tracce su un materiale murario malleabile. Come un gesto estremo, Stingel preleva questa pelle scarificata e la modella in un materiale solido, scon­giurando il suo destino. Ciascuna a proprio modo, le impronte e le tracce di Danh Vo e Rudolf Stingel sono nuovi oggetti di devozione, offerti nella loro fragilità sospesa tra presenza e assenza.

Il terzo macrotema é “Morte e resurrezione” con Sherrie Levine e On Kawara. Dodici teschi di vetro sono disposti in altrettante vetrine che ricordano i musei di un tempo. Sul muro sette dipinti di On Kawara raffigurano una serie di date scritte in bianco su fondo nero. Mentre l’installazione scultorea “Crystal Skull” di Sherrie Levine indaga la natura effimera della vita e la fascinazione per la morte, i dipinti di On Kawara giungono invece a segnare il passaggio del tempo e la costruzione del quotidiano. Maurizio Cattelan è presente nella Sala 14 con La Nona Ora, una delle sue opere più iconiche ovvero la statua di cera molto realistica di papa Giovanni Paolo II abbattuto da un meteorite. Le serie Uncreatures e Stase di Étienne Chambaud si collocano, come lui stesso sottolinea «tra assenza e presenza, tra essere e divenire, tra il qui e l’altrove, tra ciò che esiste, ciò che è presente e ciò che potrebbe apparire». Ricoprendo alcune icone di foglie d’oro o inglobando materiali stampati in 3D, l’artista francese, trasforma la percezione di chi le osserva. In “Nuovi rituali” tra le opere anche Paulo Nazareth con i video Antropologia do negro I e Antropologia do negro II dove seppellisce la propria testa e il torso sotto un cumulo di teschi, appartenuti a persone nere o originarie del nord­est del Brasile. In questo modo l’artista inscena una simbolica e rituale cerimonia funebre per quei defunti senza nome, aprendo un canale di comunicazione con presenze ancestrali, allo scopo di placare le anime degli anonimi morti insepolti. Viaggiando a piedi per l’Africa Occidentale, Paulo Nazareth ha raccolto un pezzo di stoffa logoro, sul quale ha ricamato un profilo simile a un albero e la parola “oublié”. La grafia volutamente sbagliata nel titolo dato all’opera vuole ricordare l’effetto persistente del colonialismo linguistico e la simpatia dell’artista per l’alterazione degli idiomi. A Bom Jesus Paulo Nazareth si è imbattuto in una chiesetta cattolica inghiottita dalle radici di un enorme iroko, albero originario dell’Africa Occidentale e venerato dal popolo ketu di origine yoruba. L’artista affronta poeticamente l’imposizione violenta di un sistema di credenze europeo, ma anche il persistere con nuovi significati, sulla sponda opposta dell’Atlantico, delle proprietà magiche di un albero africano.

Edith Dekyndt, Ombre Indigène, 2014 © Edith Dekyndt. Installation view, Icônes, 2023, Punta della Dogana, Venezia. Ph. Marco Cappelletti e Filippo Rossi © Palazzo Grassi, Pinault Collection

Infine nella sezione “Ascesi” oltre a Josef Albers, Michel Parmentier, Roman Opałka e Josef Albers, lo splendido Teatrino di Palazzo Grassi, con l’artista e regista Arthur Jafa, in risonanza alle tematiche della mostra Icônes a Punta della Dogana, ospita l’opera video akingdoncomethas. Dal montaggio e respiro epico, composta da canti gospel e sermoni registrati presso le congregazioni nere degli Stati Uniti, il titolo rimanda all’arrivo del Regno di Dio annunciato da Gesù. L’opera, realizzata a partire da video raccolti su internet, mette in scena corpi trasfigurati attraverso le parole pronunciate, come fossero in preda a una forza esterna.