Nasce bar.lina, il nuovo centro di ricerca queer a Roma. Parola a uno dei fondatori, Andrea Acocella

La storia delle arti visive esige una riflessione attenta e delicata; una nuova rilettura della sua identità. A Roma, nel quartiere San Lorenzo nasce per questa ragione bar.lina, un nuovo polo di dialogo e scambio per il mondo queer e non solo

San Lorenzo, la storia della città di Roma l’ha visto sempre in prima fila tra i quartieri più in grado di mostrarsi all’avanguardia. Le esigenze sociali sono sempre state la linfa che ha attivato la sua comunità. Il dibattito febbricitante è sempre stato parte della vita quotidiana sanlorenzina, tra un caffè sotto il pergolato del Bar Marani o la “punta” in piazzetta per prendere l’essenziale per la giornata al mercato. Passando davanti al ristorante Pommidoro si può immaginare ancora Pier Paolo Pasolini seduto con il suo giornale specchiato nei soliti occhiali scuri, irrinunciabile diaframma che divideva il suo sguardo dal mondo. Un microcosmo incastonato tra le mura aureliane che mai e poi mai si è però sentito isolato, anzi si è fatto luogo di interconnessione tra individui, dando spazio al dialogo aperto. È proprio su Viale dello scalo San Lorenzo, 49 che apre bar.lina, spazio indipendente nato dall’esigenza di costituire un polo essenziale per ricerche critico, artistico, letterarie inerenti la comunità queer italiana e internazionale. Il progetto ci viene raccontato da Andrea Acocella, tra i fondatori di bar.lina, curatore d’arte e attivista queer. 

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Bazaar. Metamorfosi del desiderio, 2022, exhibition view photo by bar.lina’s team

Quando e come nasce bar.lina ?
Bar.lina nasce nel 2021 come associazione di promozione sociale. Io sono tra i sette fondatori e sono nel consiglio direttivo che è composto da altri tre membri: Alberto Boncoraglio, Gianluca Giacchi, Paolo Salvatori. Questo spazio nasce come progetto culturale e muscolare. L’idea da cui è cominciato tutto arrivata durante la fase più dura della pandemia. I mesi del lock down ci hanno spinto a metterci in gioco per fare davvero qualcosa di utile a tutta la comunità. Quello che doveva essere un progetto attivo sul digitale, probabilmente in forma di magazine, ma ben presto abbiamo sentito l’esigenza di spingerci oltre. Fare ricerca sull’identità queer è complicato, le porte in faccia sono all’ordine del giorno, il mondo accademico arranca in Italia nell’accettare la presenza e l’importanza di questo genere di tematiche. Da questo è nato il desiderio di organizzarci in maniera autonoma.  

Credi che le questioni di genere siano ancora un tabù per il mondo accademico ?
Io ho provato più di una volta a candidarmi per dottorati in Italia ma mai è stato intimato di cambiare tipologia di ricerca. L’italia non è pronta. Ci sono delle università in Italia che si occupano di studi relativi alla branca dei queer studies ma analizzandoli solo dalle prospettiva gay e lesbica. Questo tipo di nomenclatura è ormai antica, ci siamo fermati agli anni ’90. Ci sono pochi punti di riferimento, l’università di Verona con il professor Bernini per esempio. A Torino c’è stato il primo corso sulla storia LGBT. Sono segnali, ma non bastano. In Italia sono davvero tanti i ricercatori che hanno scelto di trasferirsi all’estero e continuare i loro percorsi altrove. Le università sono più aperte e mettono a disposizione strumenti validi per sostenere coloro che si caricano di questo impegno, questa responsabilità.

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Bazaar. Metamorfosi del desiderio, 2022, exhibition view photo by bar.lina’s team

Perché il mondo accademico persevera nella sua chiusura quando a livello sociale è evidente che ci sia stato un netto scarto rispetto alle tendenze di alcuni lustri fa?
É qui il bandolo della matassa: la situazione accademica rispecchia la nostra società non pronta, ad oggi, ad accettare tutto questo mutamento. È certo che ci sia stata un’apertura. Rispetto ad anni fa la visibilità queer ha goduto di nuova luce e nuova attenzione. Sono all’ordine del giorno esempi di plateale comparsa dell’identità queer nel mainstream: basti pensare all’arrivo di Rosa Chemical sul palco di Sanremo. La paura però esiste.

Tra i i vostri obiettivi come organizzazione c’è quello dello studio della storia dell’arte dalla prospettiva queer. Come credete possa essere la strada adeguata per mettere in atto questa rilettura?
Crediamo che alla base di tutto ci sia l’inclusione. Non includendo tutte e tutti nella riscoperta una storia diversa rispetto a quella che ci hanno raccontato fino a oggi commetteremmo lo stesso errore di chi ci ha preceduto. Noi abbiamo iniziato progetti con le scuole proprio con l’obiettivo di rendere fruibile la storia del movimento queer. Occorre conoscere queste dinamiche così da capire quale è stata la loro influenza sullo sviluppo delle arti visive contemporanee. Se non si conosce la storia è impensabile studiarne le conseguenze: banalmente, esiste una storia di delle unioni civili, per esempio. Occorre rispolverare questi argomenti e far comprendere quanto importanti siano i passi che nel tempo sono stati fatti. 

Quanto è importante l’utilizzo di una nuova linguistica in questa nuova esplorazione della storia?
La lingua muta, tanto quanto il corpo. Dato che si parla di corpi in questo caso stiamo parlando automaticamente di qualcosa destinato a evolversi nel tempo. Noi come specie umana cambiamo, le nostre fattezze oggi sono diverse dai nostri coetanei qualche decennio fa. Il linguaggio prende poi più forme: esistono identità che non si rispecchiano nel messaggio attuale. La schwa, il femminile super esteso, sono tutti espedienti che ognuno deve utilizzare secondo la propria sensibilità. Come fai a definire una personalità non binaria secondo le regole grammaticali classiche ? Una soluzione la possiamo trovare nei dialetti, in questo Napoli in particolare ci sa dare una grande mano. La schwa lì è qualcosa di utilizzato da sempre. Anche nell’immaginario napoletano troviamo una familiarità diversa in queste tematiche: basti pensare alla figura del “femminiello”. La cultura partenopea è performativa e quindi in grado di legarsi in maniera efficace con il linguaggio queer che supera la parola. Credo che il linguaggio di cui dobbiamo tenere più conto sia quello dei corpi. 

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Bazaar. Metamorfosi del desiderio, 2022, exhibition view photo by bar.lina’s team

Negli anni è mutato il modo di rappresentarsi della comunità queer?
La rappresentazione del corpo è quello che muta di più in assoluto. Ci sono artisti che su questo hanno fondato la loro ricerca. Si pensi per esempio ad Angelo Guttadauro che con la fotografia documenta questo tipo di evoluzione. Dal movimento gay e lesbico, oggi siamo arrivati a riconoscerci in qualcosa di molto più complesso e articolato. Il cambiamento però è naturale. Una delle cose di cui siamo fieri è che bar.lina è diventato un luogo di scambio intergenerazionale e la vecchia guardia militante, fatta di volontari e artisti, si trova qui per portare la sua esperienza ma anche condividere e confrontarsi con i giovani di adesso. 

Il disinteresse sociale e accademico che origine ha? È dovuto a una scarsa conoscenza o credi che possa essere legato al mercato, all’incapacità di rendere il queer un prodotto vendibile?
No. Il problema è la non conoscenza. Dal punto di vista commerciale il queer vende. Queste ricerche vedono annullata la possibilità di essere portate avanti in Italia perché non c’è ancora una sensibilità che possa farne capire il reale ingombro. Portare avanti una rilettura della storia dell’arte è qualcosa che presenta una portata universale. Stiamo provando a reimmaginare la storia, la mettiamo in discussione e ci infiltriamo in essa come dei bombardieri pronti a farla esplodere. Ciò che rende complesso tutto questo lavoro è la velocità con cui viaggiano i cambiamenti. Basti guardare a ciò che ho raccontato nella prima mostra che abbiamo presentato al pubblico.

Stai parlando di Bazar, il vostro progetto d’esordio?
Sì, esatto. Abbiamo tenuto molto a rappresentare questo gap che c’era e che oggi per fortuna abbiamo superato. Le riviste in mostra, numeri da collezione del noto magazine gay Babylonia, portavano alla luce le esigenze di una comunità che è profondamente differente da quella di oggi. Quelle riviste sono lo specchio degli anni ’90 ma osservate con gli occhi di oggi quasi ci fanno sorridere. Nonostante questo sono state fondamentali, soprattutto nella definizione di un linguaggio, una terminologia su cui poggiare i ragionamenti di oggi e di domani. Iniziare tutto con una mostra d’archivio ci ha portato a mandare un messaggio. Quello che contano per noi sono le ricerche, non importa chi è che le porta avanti. Come ho già spiegato, bar.lina è un luogo aperto al confronto in ogni sua forma. Non è infatti un caso che in queste settimane ospitiamo la nuova mostra firmata da Chiara Bruni che non è un’artista omosessuale ma che inserisce nella sua ricerca elementi fondamentali anche per il nostro percorso. 

A Volte, 2023, installation view at bar.lina photo by Chiara Bruni 

Chiara Bruni porta la sua nuova mostra personale a bar.lina. Ce la vuoi raccontare?
Esistono artisti come Chiara Bruni, non omosessuali, che sono molto indirizzati su quelle che sono le tematiche della ricerca queer, sulla tematica dei corpi, sull’identità di genere. Tutto questo è evidentemente dovuto al legame che c’è tra il movimento queer e i movimenti femministi che ne hanno preceduto la formazione. Già negli anni ’70, Mario Mieli diceva “combattiamo con le femministe”. Sono le donne che per prime hanno lavorato insieme per la decontrazione dello sguardo maschile. Con Chiara, ragionando sul suo intervento, siamo partiti dai manifesti femministi firmati da Carla Lonzi. In particolare siamo stati colpiti da una frase“. La figura della donna è sempre stata un’immagine tramandata dagli uomini”. C’è molto da rimproverare a una figura come Carla Lonzi, di cui ammiro molto lo scritto ma mantenendo. I miei dubbi sul modo in cui era solita agire. Parlava delle donne ma intervistava solo uomini. Proprio da questo è partito il desiderio di includere Chiara Bruni nel nostro programma espositivo, aprendoci e mescolandoci. Chiara Bruni, partendo dalle cartoline porno anni ’20, reinventa il corpo delle donne, che in quegli scatti è osservato come un pezzo di carne. Lo sguardo maschile è messo all’angolo. La pratica di Chiara Bruni provoca la nascita d’un immaginario totalmente nuovo e tutto al femminile.

Info: www.barlina.org

A Volte
a cura di Andrea Acocella
fino al 25 marzo
bar.Lina – viale dello Scalo San Lorenzo, 49, Roma