Tra sogni e realtà: il post-colonialismo politically correct della Biennale di Venezia

I padiglioni UK, USA e Francia scelgono il tema della diaspora come biglietto da visita per una Biennale che non vuole sconvolgere e racconta sottovoce la controstoria dell’occidente

Non sono state sufficienti le lucciole pasoliniane e l’imponente allestimento dal sapore Amarcord del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia per assicurare a Gian Maria Tosatti ed Eugenio Viola l’attenzione che speravano di ottenere. La rappresentazione profetica e politicamente corretta di un Bel paese che ormai è apparentemente solo l’ombra esistenzialista di se stesso non ha colpito chi di dovere. La tematica non ha saputo carpire come necessario l’attenzione di una giura – composta da Adrienne Edwards (Usa), Lorenzo Giusti (Italia), Julieta González (Messico), Bonaventure Son Bejeng Ndikung (Camerun), Susanne Pfeffer (Germania) – la cui attenzione si è lasciata invece decisamente monopolizzare da uno tra i temi, anch’esso senza dubbio incline al perbenismo, più caldi del nostro presente occidentale: il post-colonialismo.

L’argomento non può che essere parte integrante di un discorso più ampio che si affaccia sul capitalismo e sulla globalizzazione, argomenti ampiamente affrontati da Okwui Enwezor nell’edizione del 2015. Nel presente si osserva una frattura tra ciò che si manifesta come desiderio di integrazione e accettazione di eredità culturali differenti rispetto a quella eurocentrica e approssimativi tentativi da parte delle grandi potenze, di oggi e di ieri, che ancora si trovano nella scomoda situazione di dover fare i conti con il proprio passato. La Biennale si presenta come il palco per trovare nuova soluzione alle narrazioni colonialiste che sono da decenni in fase di decostruzione, imponendo su scala globale la necessità di rileggere la relazione tra il progetto coloniale e il presente, ma anche di elaborare le strategie di resistenza da opporvi, aprendo la via a nuove forme di soggettività e a nuove pratiche di liberazione.

Simone Leigh

Nel 1983 Benedict Anderson,  filosofo della politica di ispirazione marxista, presenta nel saggio Imagined Communities (Comunità Immaginate, 1983) la definizione della nazione come unico spazio geoculturale del progresso e dell’emancipazione, ribadenso la proposta di considerare la nazione non come un dato di fatto, ma come il prodotto di processi culturali e concettuali di particolare tipo, un costrutto artificiale determinato dall’incessante produzione di simboli, dall’invenzione di tradizioni, e dai processi di creazione di un immaginario comune e di un orizzonte di memorie collettivamente condivise.

Questo è ciò che alla Biennale si rincorre: un tentativo di rappresentare l’attuale stato-nazione, incarnato visivamente da ciascun padiglione, come un luogo di ibridazione di culture e tradizioni plurali. Ciò che fa ancora storcere il naso è però la fatica con cui si affronta tutto questo al di fuori del mondo artistico: in questa occasione l’arte si limita ad ergersi come il mansueto vassallo della propaganda geo-politica contemporanea, tutt’altro che affine a questa utopica concezione egualitaria, seppur lontana dalla fase più oscura del nostro passato di popoli civilizzati.

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Simone Leigh working in her studio, 2021. ©SIMONE LEIGH/COURTESY THE ARTIST; PHOTO: SHANIQWA JARVIS

L’assegnazione dei premi ne è una poco gratificante testimonianza: uno scintillante leone d’Oro va all’accattivante Padiglione Gran Bretagna che fa quello che sa fare meglio, prendere il meglio di se, facendo credere che sia sempre stata la normalità. Sonia Boyce (Londra, 1962), artista di origini afrocaraibiche, si lascia andare all’improvvisazione musicale con il coro di black voices (Ajudha, Dankworth, Tikaram, Jernberg, Wallen) da lei selezionato, alle luccicanti Payette anni ’80, alle fantasie optical e a quell’edulcorato senso di appartenenza a qualcosa di più grande che sembra però non riuscire a uscire veramente dal quel guscio di autonarrazione, incapace di non lasciar andar via gli spettatori ancora obnubilati da un luccichio a tratti insipido, piacevole certo ma scarico di potenza.

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UK Pavillon ©La Biennale

Coincidenza vuole che anche gli Stati Uniti abbiano necessità proprio quest’anno di un bagno di coscienza in chiave artistica e selezionano Simone Leigh (Chicago, 1967) per l’esordio di un’afroamericana nel proprio padiglione veneziano. Feeling d’eccezione con Cecilia Alemani a parte – nel 2020 la aveva incoronata come una delle artiste più influenti del momento – l’artista/ attivista mette ancora una volta al centro del lavoro la diaspora, la sofferenza del popolo africano, dilaniato dal suprematismo bianco, in qualche modo lo stesso che oggi la elegge a eroina della dialettica anticoloniale, vincendo anche un leone d’oro come miglior artista. Muscolari e potenti elementi richiamano a gran voce, con un incontrovertibile slancio femminista, la secolare cultura africana. L’allestimento da togliere il fiato giustifica la riuscita di un’attesa partecipazione, forse esageratamente annunciata come favoritissima.

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Les rêves n’ont pas de titre. Foto di Thierry Bal

Spazia sul tema anche il suggestivo padiglione francese dell’artista parigina Zineb Sedira (Parigi, 1963) che tra cinema e realtà ci trasporta in una dimensione architettata per mettere gli spettatori a proprio agio. Si respira un’atmosfera romantica d’altri tempi, con un gusto vintage che non stanca mai. La Francia si concentra sulla storia dell’Algeria, narrata attraverso la cinepresa, un filtro che racconta di una fetta d’Africa che porta ancora sulla pelle i sogni di un passato coloniale difficilmente romanzabile. Senza dubbio trascinante, con un fascino d’altri tempi che ci fa guardare un’altra faccia della medaglia di una nazione che non rinuncia a volersi raccontare come campionessa della teatralità. 

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Ritratto di Zineb Sedira. Foto di Thierry Bal