Questioni di forma e di segni: la pittura di Damien Meade da CAR DRDE a Bologna 

La galleria bolognese conferma, a distanza di quattro anni dalla prima personale, il sodalizio con il pittore irlandese presentando i suoi lavori più recenti

“Uno sconcertante incontro tra Giovanni Bellini e Auguste Rodin: con questa formula, nel 2020, in visita a Pittura XXI – sezione di ArteFiera curata da Davide FerriLudovico Pratesi ha definito il lavoro del pittore irlandese Damien Meade (Limerick, 1969). All’epoca dei fatti Meade aveva già lasciato il segno nello sguardo e nella mente di critici come Pratesi o come lo stesso Ferri. Il giovane critico, aveva del resto confessato, riferendosi alle sculture dipinte di Meade, di non riuscire «a smettere di guardarle»: era l’ottobre del 2018, e l’artista intraprendeva il sodalizio con Davide Rosi Degli Esposti e con la sua galleria, la CAR DRDE. 

Ora, dal 9 aprile 2022 e a distanza di quattro anni da quella prima rassegna, lo spazio di Via Azzo Gardino concede al pittore una seconda mostra personale, dedicata ai suoi lavori più recenti, sei piccole tele ad olio, tutte del 2021. 

Inscrivendosi con coerenza all’interno del percorso artistico di Meade anche queste piccole tele, telegrafiche nei titoli – ogni quadro reca le iniziali del pittore (DM) e un suo personalissimo numero “d’inventario” –  lasciano il segno, e lo fanno non tanto nella misura in cui impongono con forza la loro presenza nella memoria di chi le guarda, quanto piuttosto nel loro essere sintesi figurativa di una presenza segnica. 

Per introdurre il concetto di segno, è necessario arretrare l’analisi della pittura di Meade portandola allo stadio progettuale, all’esatto momento in cui l’artista manipola blocchi d’argilla per ricavarne le sue “teste senza sguardo” (Davide Ferri). L’enigma dei volti, che John Chilver ha associato ai manichini surrealisti di De Chirico, Bellmer e Salvador Dalì, è inoltre cristallizzato dall’artista tramite il ricorso alla fotografia. Scattando ai suoi busti una serie di immagini, l’artista procede con la selezione di un determinato punto di osservazione e infine alla trasposizione pittorica. 

Il pennello, dunque, altro non è che l’ultimo tassello di una pratica che Alessandra Franetovich, nel testo critico di accompagnamento alla mostra, ha definito olistica. Un esercizio di “mobilità e negoziazione” tanto tra tecniche diverse (scultura, fotografia e pittura) quanto tra i due estremi di materia e forma, opposte sponde di una dicotomia che appare insanabile. Quando, sembra chiederci Meade, una data configurazione di materia nello spazio ha le carte in regola per fregiarsi del titolo di forma, e di conseguenza ambire a un posto tra i soggetti eletti dell’arte? Il modellino in argilla, il bozzetto di studio smette di nascondersi, e affrancandosi dalla sua condizione ancillare, supera anche lo statuto di “gregario di lusso” per divenire esso stesso soggetto, “sublimandosi” in essa (John Chilver), di una pittura ibrida, necessariamente in bilico tra ritrattistica e natura morta, che non ha paura di esporre la trama grossolana dell’argilla, i dettagli appena accennati di figure non sempre riconoscibili ma ogni volta plausibili. Una pittura, se si spoglia tale aggettivo di qualsivoglia incrostazione moralistica, anche esibizionista, che offre allo sguardo le tracce concrete dell’intervento della mano, le memorie fantasmatiche di una presenza svanita – a cui prima Peirce e poi Krauss hanno dato il nome di indice – evocata anche nei close-up di agglomerati materici dal tono rosato, altra inconfondibile firma di un pittore tanto evidente e riconoscibile quanto complesso.