Se Il capitale umano di Paolo Virzì è un film-ritratto di una provincia, tra luccichii e miserie, e in Charlie fa il surf – brano simbolo dei Baustelle – ci si chiede se «vivi ancora in provincia, ci pensi ogni tanto alle rane», in Padovaland, graphic novel d’esordio di Miguel Vila (fumetto vincitore nel 2021 del premio Boscarato e di quello come miglior autore esordiente al recente Lucca Comics and Games), la periferia di Padova viene calata all’interno di una provincia dalla personalità crudele, deformata, celata dietro le facciate rassicuranti di palazzine moderne, di villette a schiera dai colori pastello, lungo cortili con l’erba tagliata di fresco e popolati da nani e statue da giardino. Un volume d’impatto Fiordilatte, che ha fatto riflettere. Così l’attesa era tanta nei confronti del nuovo lavoro dell’autore veneto. E non è andata a farsi benedire. Perché Fiordilatte (brossurato, 176 pagine a colori, 19 euro), edito ancora da Canicola, è una provocatoria opera a fumetti che altrettanto colpisce alla bocca dello stomaco. Soft thriller psicologico ambientato di nuovo nell’alienante provincia del nordest, laddove il narcisismo prende le sembianze di ambigue pulsioni e l’erotismo innesca una serie di azioni surreali, questo racconto riprende la modalità, già ben espressa da Vila in Padovaland, di spiare i suoi personaggi tanto nel loro contesto sociale quanto nella dimensione intima. Tutto ciò tratteggiandoli al pari di cavie da laboratorio: da studiare certamente ma, altrettanto, da tenere a debita distanza. Che non si sa mai.
Ricorrere a tecniche sperimentali alternative? Nemmeno per sogno (o incubo, a seconda dei casi): l’autore va già duro a vivisezionare i suoi “topi da laboratorio” annoiati e privi di freni inibitori, inducendoli ad interagire/a scontrarsi tra di loro. Nell’attesa, pazienza sua, che gli istinti più bassi prevalgano e nell’assistere all’inevitabile confusione che ne consegue. «Un gioco sadico ma divertente, nel quale ad ogni modo non si fa male nessuno», precisa l’autore, classe 1993, che ha frequentato il corso di linguaggi del fumetto presso l’accademia di Belle Arti di Bologna. Ed eccoci, nella narrazione di Fiordilatte, approdare all’antico borgo di Bessaniga, fittizio comune del nordest, che con la sua anonima periferia affondata nei colli fa da sfondo agli intrecci – nonché alle relazioni morbose – di Marco (“vorrei solo saper scopare come tutti gli altri”, piagnucola) e Stella (“lo sai che mi sono fatta i piercing ai capezzoli?”, esordisce lei), ma anche di Ludovica, detta Lulù, e Daniele. Breve spoiler: la tiepida relazione di Marco e Stella verrà messa in ulteriore difficoltà proprio dalle pressanti intrusioni di Daniele ma anche delle inquietanti capatine di Ludovica, una sorta di femme fatale di casa nostra dal seno maggiorato da cui cola costantemente latte materno – è lei stessa madre di un bimbo che non smette di piangere – capace di far scoprire (riscoprire?) a Marco le sue pulsioni più celate.
Intorno a lei e al suo oscuro passato si costruisce l’intera vicenda. C’è n’è per tutti i (dis)gusti in Fiordilatte: dal catcalling – “ammettiamo che ad alcune può anche piacere”, afferma Stella – al body shaming (“hai visto Elena quanto mangiava stasera. Poi sempre in disparte e non parla mai con nessuno. Si poteva non invitare”, sempre lei). E ancora, condom usati, masturbazioni davanti a Pornhub – nonché video porno girati per pagarsi l’affitto – denti marci, occhiaie, corpi flaccidi, banane split squagliate dal caldo. Attraverso uno sguardo voyeuristico e disincantato, ormai divenuto vera e propria cifra del suo lavoro (assolutamente identificabile) Vila, coraggioso e lucido autore dei giorni nostri, spoglia i suoi personaggi, guardandoli nelle loro insicurezze e ipocrisie, ma anche osservandone i desideri inconfessabili maturati in un contesto di desolazione provinciale contraddistinto da dinamiche sociali misere e disfunzionali. Quartieri osservati dall’alto (un po’ alla Chris Ware, per intenderci) e personaggi – dai disagi non indifferenti – osservati di fronte e da dentro, con sguardo chirurgico. A incidere, dunque, e non a tagliare “tanto per” le loro vite così fatue e meschine. Dunque, perché mai dovevamo uscirne migliori?