Padovaland

Padova

Padovaland come ”l’isola del divertimento” (parco acquatico, per l’esattezza) nella zona industriale della città veneta, conosciuta soprattutto per gli affreschi di Giotto della cappella degli Scrovegni e per la basilica di sant’Antonio? Non esattamente. Scritto e disegnato da Miguel Vila, Padovaland (Canicola edizioni, 160 pagine a colori, 18 euro) è l’esordio dell’autore padovano di origine argentine (classe 1993) che traspone il lettore in «una immersione impietosa tra le vite di un gruppo di ventenni della provincia del nordest italiano», sintetizza il comunicato. Dimenticatevi graphic novel rassicuranti come Girotondo, scritto da Sergio Rossi e illustrato da Agnese Innocente per Editrice Il Castoro, che narra l’amore ai tempi di whatsapp in quel di Bologna. Distanze non solo chilometriche, ma anche approcci differenti. Così, mentre Carboni canta ”Bologna è una regola”, nel caso di Padovaland (narrazione corale che flirta con le opere di Chris Ware, rimandando anche ai lavori di narratori del cosiddetto ”disfacimento morale dell’uomo contemporaneo” come Paolo Bacilieri, Daniel Clowes, Giacomo Monti) l’empatia è pressoché sconosciuta. Laddove l’autore – quasi con fare notarile, ma non per questo scarsamente curioso, tutt’altro – osserva con (mal)sano distacco l’habitat naturale, ma anche le complesse dinamiche sociali e le condotte sopra le righe di alcuni giovani alle prese con la propria quotidianità, che si muove – meglio, si trascina – tra aperitivi, social, amicizie di convenienza, sesso mordi e fuggi con laidi partner e mondo del lavoro spietato. «La periferia di Padova ha una personalità crudele, nascosta dietro le facciate tranquille di palazzine moderne, villette a schiera color pastello e cortili popolati da statue e nani da giardino». Fin qui sembra (quasi) l’incipit di un film di Tim Burton, come Edward mani di forbice, girato a Tampa, in Florida, dove le villette vennero ridipinte proprio color pastello sbiadito per offrire la sensazione claustrofobica della provincia a stelle e strisce. E invece nel complesso e tagliente Padovaland, scrive ancora Vila, «tra una festa di laurea e l’altra, Irene subisce il mobbing delle sue colleghe, Andrea è maltrattato dalla fidanzata, Catia riceve continue attenzioni indesiderate». A fare da sgangherate cornici, una carrellata di ambientazioni grottesche e nonsense, dove la costante di un’insoddisfazione (più o meno latente) dà il là a un circolo morboso e vizioso che si esprime attraverso grettezza e violenze fisiche/psicologiche. ”Scusa, stavo pensando a una roba su Facebook”, sbotta a ridere Irene mentre, nella cassa del supermercato dove lavora, le si para davanti Chiara, un’amica – mai termine fu meno appropriato – finta come una banconota di sei euro, accompagnata dal suo moroso che più ameba non si può (adulto, nel mangiare non sa distinguere quando fermarsi. E vomita tutto). È Andrea l’impacciato, incapace di presentarsi, mentre l’arpia lo tiene salda al guinzaglio (dove mai scapperà?). E Irene? Concluso il suo ”esaltante” turno subisce le molestie di pseudo colleghe che le palpano i seni prosperosi e la umiliano (”Rocco ci ha detto che gliele hai fatte ciucciare”), mentre il giorno dopo un’anziana cliente le si rivolge con un: ”non si vergogna? Mi hanno detto quello che hai fatto in magazzino con il macellaio, mi hai fatto venire il voltastomaco”. E ancora, la timida Giulia è alle prese con la tesi di laurea – ma il suo relatore non capisce dove voglia andare a parare (”ma delle foto che mi dice? Perché i depositi d’acqua? Cosa c’entrano?”) – e la nonna malata, a cui tiene la mano mentre butta un occhio al cellulare, non si sa mai arrivi la notifica tanto attesa. Senza parlare di Fabio, che non disdice l’ubriacatura e si intromette nelle chiacchiere tra donne (che non conosce) sedute al bar accanto a lui: ”certo che anche tu, fai meno la figa di legno”. Nessuna solitudine dei numeri primi: questi personaggi – tanto degradanti quanto degradati eppure così umani, più vicini a ciascuno di noi di quanto si possa immaginare – hanno quasi tutti un partner. Eppure si sentono (di fatto, sono) tremendamente soli, protagonisti involontari di un ”Truman show” di serie z che è il mondo in cui viviamo. Frutto di una società bulimica, usa e getta, anestetizzante e anestetizzata, che interconnette e isola. E noi qui, a chiederci perché.

Info: www.canicola.net