Scorgere il trascendentale nel quotidiano

Nell’opera di Sylvio Giardina esistono sempre più cose, più cose insieme. Così non ne vediamo mai una sola, una sola da identificare, circoscrivere, analizzare. Il suo non è un lavoro all’interno di una precisa cornice spazio-temporale. No. Idee e disegni. Abiti o fotografie. Anche i mezzi che usa, sì, anche questi, sono diversi e sconfinati. Diversi e sconfinanti. Immagini che fanno sognare, che ci portano sempre da qualche altra parte. Magiche. Alchemiche. La fucina di Sylvio ci regala un immaginario ricco. Dalla storia del passato, a quella attuale, con uno sguardo al futuro. La sua è una ”visione”. La sua è una visione tridimensionale, come se volesse farci scorgere il trascendentale in quello che ricava da tutti i giorni, dalla vita, dalla vita vera, dal reale. Qualcosa di trascendentale dal quotidiano. I suoi progetti sono come storie, a volte favole. Forme che ricrea da un punto di vista mai stretto e ordinario ma largo e ulteriore. Spesso doppio.

Ogni volta che ti incontro, ti incontro sorridente, ti vedo felice. Ci siamo conosciuti qualche anno fa e il tuo sguardo non è mai cambiato per me. Questo lockdown ci ha portato, un po’ tutti, a rivedere qualcosa in noi, di noi, con gli altri ma, allo stesso tempo, ci ha fatto capire che possiamo confermare qualcosa in noi, di noi, con gli altri. Ci siamo rivisti da poco per strada, quasi sotto gli archi di San Giovanni, io andavo di corsa – come sempre – e mascherata; faceva molto caldo: incontrare te e Raffaele mi ha fatto fermare, mi ha fatto fermare anche per quel tuo sorriso. Sì. E mi hai raccontato di un bel progetto, inaspettato, nato sulla terrazza condominiale di casa tua: Olive Dolci.
Olive Dolci è un progetto video. Un video-poesia. Poche parole, tante attese, tante immaginazioni. Tanti colori che contrastano. Mentre lo guardavo mi lasciavo portare via dalla musica, provavo a immaginare quello che sarebbe successo. Cosa sarebbe successo in uno dei pochi posti che c’era concesso visitare per uscire di casa, per prendere un po’ d’aria, per guardare il cielo. Per affacciarci sul mondo, come hai affermato anche tu. Ma non solo sul mondo, aggiungo io, ma anche su qualcosa di molto più vicino, come le persone che abitano nel nostro palazzo. E Olive Dolci ci racconta anche questo… Quanto e per quanto tempo pensiamo e vogliamo ciò che è lontano, e perché non facciamo lo stesso per qualcosa di altrettanto bello ma di vicino? Mi verrebbe da rispondere, senza pensarci: perché non lo conosciamo. Forse cambierebbero molte cose. Forse saremmo in grado di trasformare la nostra percezione del mondo, di quello che c’è intorno a noi. Perché ognuno ha il suo mondo intorno (e questo non cambia). Una terrazza, aria fresca, nuove emozioni. Nuove idee, nuove visioni. Olive Dolci è un racconto breve. Di quelli che ti arrivano di colpo, in sogno, in dormiveglia, mentre guardi fuori dalla finestra. Una suggestione di cui ti innamori subito e che provi in fretta a ricreare per averla ancora con te.

«Olive Dolci è stato realizzato durante l’isolamento per la pandemia da covid-19, dove l’unico spazio a nostra disposizione per avere un contatto con il mondo esterno era la terrazza del condominio e dove è stato possibile simulare una breve passeggiata, leggere un libro al sole e incontrare, rispettando il distanziamento sociale, le persone che vivono nel palazzo. È lì che ho incontrato Giuditta, la mia vicina, quasi una sconosciuta fino a quei giorni, mi ha raccontato il suo sogno, la sua fantasia scaturita dal nostro incontro. Il progetto identificava la lontananza, il distacco, ma un velo di speranza era percettibile, e con entusiasmo ho accolto la sua idea e abbiamo deciso di raccontarla con un piccolo film. Il luogo: la terrazza, uno spazio sospeso, surreale, che si era trasformato nella nostra piazza, la nostra via, la nostra città. Olive Dolci in verità non racconta solo il confinamento e la lontananza ma è la riscoperta che la felicità e la bellezza sono lì, vicino a noi, alla porta accanto. A volte corriamo verso l’irraggiungibile, ansiosi e nevrotici senza renderci conto che molto è già in nostro possesso. E tu mi dai l’occasione per ringraziare pubblicamente Giuditta per avermi regalato questo momento di felicità e bellezza ritrovata.»

Ti ho conosciuto per i tuoi abiti. Modelli da sogno. Haute Couture. Ricordo ancora la prima volta che sono entrata nel tuo atelier, me ne stavo in silenzio a guardarti e ad ascoltare e pensavo ”chissà come ha fatto a capire che voleva diventare uno stilista”. Ecco: quando l’hai capito? Come? Perché? Hai un ricordo? Un flash: sì, raccontami di quell’istante in cui hai realizzato. Hai fatto l’Accademia e i tuoi abiti mi ricordano opere: linee dal passato, dal presente e che anticipano anche qualcosa dal futuro. Utilizzi l’arte come quello strumento che ti permette di dare forma ad una tua intuizione, probabilmente legata a ciò che hai davanti. Quando osservo i tuoi lavori rivedo forme, corpi, situazioni: ognuno ha un proprio linguaggio. Storie contemporanee velate di romanticismo con uno sguardo al futuro.

«Non ho un ricordo chiaro, sia rispetto al tempo, sia a come tutto è iniziato… Forse l’amore per il bello? Uhm! Ma non basta… Puoi immagazzinare contenuti, immagini, emozioni e sensazioni… ma poi bisogna tradurli in un proprio linguaggio di comunicazione, e non è semplice. Il tutto si è evoluto in maniera spontanea e naturale, forse il fatto che io non abbia mai veramente deciso di essere solo stilista mi ha dato una visione più ”libera” rispetto al mio lavoro. Mi spiego: per anni se eri uno stilista o un artista dovevi essere solo quello, non c’era contaminazione tra le due figure entrambe creative, io non ho mai voluto essere una cosa sola. L’obiettivo è stato ed è sempre lo stesso, si ripete, contaminare il mio linguaggio, la mia visione calandola in una realtà in continua evoluzione».

La tua ricerca è una ricerca in continua evoluzione, muta con il tempo perché guarda al tempo, ce lo racconta senza parlare. La tua è una ricerca ricca anche perché non sei solo: da tanto tempo insieme a te, Raffaele Granato. Penso in particolare al vostro progetto Stato di Famiglia: un duo artistico nato nel 2004. Un duo che si concentra sul ”doppio”. Sulla capacità di fare molto di più se si è di più per provare ad arrivare oltre. Oltre il solito. Prima dicevo che ognuno ha davanti a sé il proprio mondo, ognuno vede con le proprie lenti, lenti che sono uniche. Nessuna visione è mai uguale ad un’altra. Alcune sono simili, alcune no. Alcune hanno bisogno di completarsi, altre no. Stato di Famiglia ci fa vedere qualcosa da più punti di vista, punti di vista che vogliono stare vicini per formare un nuovo punto di vista, come un più vasto sguardo sul mondo. E, il riflesso – quello che riappare su una superficie specchiante identico ma al contrario – e la fotografia, le chiavi per entrare in quest’altro mondo. Da una visione doppia un nuovo mondo, un mondo libero da percezioni dettate dal quotidiano (sì, dettate). Effetti ottici e illusioni olografiche stimolano l’osservatore e lo trasportano. Come in una puntata di Dark, che non so se avete mai visto, tutto sembra nato per la prima volta, eppure è già esistito, frutto di incastri e di eterni ritorni.

«Stato di Famiglia è nato dall’incontro con Raffaele avvenuto a Parigi 16 anni fa… entrambi con delle passioni che erano motivo di confronto, discussione, di pareri e opinioni. L’arte era ed è in parte la linfa del nostro stare insieme, del nostro tempo. Il nome di Stato di Famiglia è legato al quotidiano, niente di pensato o studiato, tutto per caso. Un giorno, lontano oramai, Raffaele aveva bisogno di un documento, del così detto ”stato di famiglia”, quando ci fu rilasciato scoprimmo con grande sorpresa e gioia che facevamo parte dello stesso nucleo familiare in un momento storico e politico dove non esisteva una legge in merito alle unioni civili, o a coppie gay. Facevamo parte dello stesso nucleo familiare, questo ci rese molto felici. I nostri lavori esprimono la nostra percezione di una realtà ipocrita e borghese, dove l’unico modo per difendersi emotivamente è lasciare che il riflesso diventi il vero protagonista mentre la persona resta ad osservare dalla quinta».

Moda, Disegno, Visual art. Da poco è nato anche Edited Self, il tuo ultimo progetto che ha anche una pagina dedicata su instagram (@edited_self): una serie di scatti realizzati dal telefono: autoritratti. Ci sei tu, ci sei tu ma ti vedi poco, ci sono molte stoffe lucenti e colorate, ci sono rimandi. Guardando Edited Self si immagina molto. Come è nato?Perché? E dove ti porta? Dove ci porta? Quando ho visto per la prima volta le foto ho pensato: Sylvio le potrebbe ripetere a lungo e non ho avuto l’impressione di avere davanti un progetto con un inizio e una fine, come se Edited Self fosse un tuo alter ego, un tuo doppio, ecco. Senza esagerare, non vorrei che da Dark passassimo a Black Mirror, una tra le altre serie che non posso non citare, soprattutto adesso in cui stiamo diventando sempre più virtuali…

«Edited_self è nato in un momento di staticità sociale, dove gli unici ad essere vivi e presenti erano i dati rilasciati dai notiziari sui contagi da Covid-19. Ero impaurito dall’incertezza, dal restare fermo, da un quotidiano fine a se stesso: sopravvivere per poi arrivare a sera stanco di pensare, e come unico sollievo chiudere gli occhi e lasciarsi andare al cuscino. Edited_self è il mio rifugio, è il filtro, è una protezione, i tessuti tirati fuori dagli armadi dell’atelier, i fogli di carta strappati dai giornali del mio archivio non mi hanno nascosto ma protetto e non dalle persone bensì da qualcosa che non so definire, qualcosa che ci ha travolto e sconvolto.»

Vertigo. Vertigo è una tua favola. Sì Vertigo, per me, non è né una mostra, né un’installazione: Vertigo è una favola animata. Una favola contemporanea che ci riporta indietro ma che è, allo stesso tempo, ancorata al presente ed è  già pronta per il futuro. Ho più volte parlato di presente, di passato e di futuro fino ad ora.  Perché quando vedo le tue creazioni vedo tutte e tre le dimensioni del tempo, e le vedo nettamente, le vedo protagoniste. Il presente nei tagli, per il loro modo di vestire i corpi di adesso; il passato per la loro linea mai esagerata seppur innovativa ma sempre equilibrata, elegante, classica, appunto; il futuro perché riesce a dare una visione ulteriore, sì anche quando parla di 2020 e ci riporta a volumi rinascimentali, sì, anche quando mi dà queste sensazioni. La tua ricerca artistica è archeologica. Scavi per cercare quello che immagini ci sia stato, recuperi e riporti alla luce. Strati su strati, come quelli trasparenti di Vertigo. Eterei. Sognanti. Morbidi, i tessuti. Forti, gli oggetti. Il tulle e il cristallo di Vertigo ci raccontano Sylvio Giardina. Ci fanno entrare un po’ nella tua testa. Ci immergono nella tua idea di forma. Cosa fa l’arte se non farci spostare su un piano fatto di altre forme per raccontarci qualcosa, farci pensare a quella cosa, farci provare qualcosa? E a cosa guardano gli artisti se non al mondo reale per ricrearne uno nuovo? La luce, il buio, le ombre, i corpi, i volumi, i suoni. Una dimensione per più dimensioni. Dal reale al fantastico, in un ciclo fatto di sogni, connessioni. Vertigo ci racconta Sylvio e tutto questo. Ci fa sospendere per un po’ il tempo e ci incanta. Ieri, mentre leggevo Come funzione la musica di David Byrne, ho annotato una citazione di John Cage: ”L’arte è tutto intorno a noi se solo correggiamo il nostro modo di vedere e di ascoltare”. Vertigo: una vertigine per correggere. 

«Vertigo è la fragilità, l’essenza di un mestiere, quello degli artigiani, che contribuiscono con il loro lavoro a realizzare abiti su misura seguendo un rituale antico.  Il mio lavoro porta alla luce delle realtà che stanno scomparendo e sulle quali bisogna porre la massima attenzione e alle quali bisogna dare il massimo supporto sia visivo sia economico, coinvolgendo soprattutto le nuove generazioni. Mi piace molto che la leggerezza che evoca questa installazione è forse l’elemento che ti fa ricordare una favola, è sicuramente uno dei mezzi che preferisco per affrontare la vita e il mio lavoro.»

www.sylviogiardina.com