A memoria di forma, un percorso tra antico e contemporaneo

Il contesto classico e la generazione di nuovi approcci alla lettura del contemporaneo in mostra alla Gispsoteca di Pisa

GiArA, Gipsoteca di Arte Antica e Antiquarium dell’Università di Pisa, apre le porte dell’ex chiesa di San Paolo all’Orto alle sculture degli artisti di Studio 17 per A memoria di forma, un progetto volto a esplorare il legame profondo e sinergico fra antico e contemporaneo. La mostra, che accoglie le opere di Caterina Sbrana e Gabriele Mallegni, è curata da Pietro Gaglianò con il comitato scientifico composto da Anna Anguissola e Chiara Tarantino.

foto Diego Barsuglia

Un corpo di opere composto da singole sculture e parti di serie in ceramica e terracotta disposte in contrappunto con le statue della collezione permanente che, indagando innanzitutto il concetto di spazio dell’assenza, ne rileva l’impronta e ne immagina le possibilità rigenerative. Talvolta affidando l’indagine alla sperimentazione con procedimenti tecnici propri della scultura come la formatura, altre attraverso il ricorso alla pratica dell’assemblaggio.

Si configura così un percorso che chiama il pubblico a confrontarsi con alcune questioni intime ed esistenziali, come la perdita, il lutto, la creazione e la distruzione della memoria; e altre questioni collettive moderne e contemporanee, centrali e urgenti, come il colonialismo, la dissipazione dei patrimoni artistici dei paesi che lo hanno subito, la decolonizzazione culturale, la fine delle utopie sociali occidentali, il consumismo e il suo impatto ambientale.

foto Diego Barsuglia

Il percorso espositivo

Particolarmente notevole risulta l’apporto che lo spazio espositivo, con le sue specificità intrinseche, offre a questa interazione. La giustapposizione di lavori contemporanei, copie di capolavori della statuaria greca e vasellame in ceramica etrusco avviene infatti in un ambiente, la Gipsoteca, nato come strumento di educazione indispensabile alle allieve e agli allievi di accademie e istituti d’arte, di per sé spazio ideale di convergenza dei concetti di scomparsa, assenza e potenziale generativo – basti pensare a tutte le statue mutilate in essa conservate e in particolar modo alle riproposizioni sperimentali di alcune opere, nelle quali le lacune venivano immaginate e reinterpretate, come nelle due diverse versioni del Laocoonte in collezione – e trova così una sua dimensione ancora più profonda. L’intreccio delle diverse prospettive di archeologia, arte contemporanea e pubblico genera infatti una miriade di significati e la moltiplicazione delle referenze, da cogliere in punti molto distanti nel tempo, nello spazio, nei generi artistici, cinematografici e letterari, permettendo al visitatore di approfondire significativamente la propria esperienza.

foto Diego Barsuglia

Dinamica che si esprime in maniera molto evidente in La mancanza di Sbrana, scultura in ceramica che si presenta come massa informe, abbastanza simile a un meteorite, in procinto di generare un’infinità di potenziali forme. Si tratta in realtà della somma delle lesioni di statue antiche, essendo stata plasmata con le forme dei calchi di tracce di rotture presi su statue per lo più di epoca classica.  Una somma di parti che sono mancanze, realizzata nei mesi che hanno preceduto la perdita di un legame affettivo fondamentale per l’artista. Assenze che diventano presenze, la perdita e l’amore, una scultura che si erge fra queste dualità. La lettura è suggerita anche dalla vicinanza con il gruppo di Demetra e Kore, teneramente abbracciate, copie tratte dalle statue del frontone orientale del Partenone. La seconda è conosciuta anche come Persefone, colei che per sei mesi l’anno, quelli invernali, veniva strappata alla madre Demetra e destinata a vivere negli inferi con Ade. 

Concetti come quello della morte delle statue, denunciata da Chris Marker e Alain Resnais in Les statues meurent aussi (1953) o riflessioni circa le ferite che l’uomo può infliggere su di esse – come spesso e purtroppo accade in tempo di conflitti militari – sono proposte in Una brillante memoria, una serie di vasi in ceramica bianca realizzata a quattro mani da Sbrana e Mallegni, su cui sono stati riprodotti i segni impressi sui palazzi del lungarno pisano dai bombardamenti dell’agosto ’43. La serie è accostata alle copie delle statue del Partenone di Atene, uno dei monumenti simbolo della disgregazione dei patrimoni artistici operata dal colonialismo, prima danneggiato dalle guerre e poi smembrato per mano di Thomas Bruce, conte di Elgin, colui che trasferì in Inghilterra le antichità dell’acropoli ateniese. 

foto Diego Barsuglia

Al calco di un cinerario del periodo villanoviano, in terracotta, molto somigliante a una capanna, vengono affiancate le due piccole sculture del Culto del Cargo di Mallegni, realizzate nello stesso materiale e rappresentanti architetture fantastiche, realizzate con pezzi di motore d’auto e di una lavatrice, possibili abitazioni di un futuro distopico postcontemporaneo. Anche grazie a questo gioco di verosimiglianze, gli scenari qui evocati assumono una dimensione diacronica che spazia dai culti funerari etruschi al culto del cargo delle culture del pacifico – che mal interpretano e idolatrano i grandi mezzi di trasporto occidentale a loro ignoti – al culto degli spazi di aggregazione sociale come quello del condominio, tanto nell’accezione di machine à habiter di Le Corbusier, quanto in quella di metafora dell’isolamento e declino dell’umanità proposta da Ballard.

Scelte curatoriali che contribuiscono, in sintesi, a un approfondimento e al tempo stesso una moltiplicazione dei significati delle opere proposte. Nell’interazione tra i manufatti in mostra, assistiamo dunque alla generazione di un’alchimia inattesa, dove letture ulteriori e originali emergono da un dialogo apparentemente casuale, ma che in realtà ci illumina su questioni tanto centrali nell’antichità quanto nella contemporaneità. 

Caterina Sbrana e Gabriele Mallegni, A memoria di forma
a cura di Pietro Gaglianò
fino al 1 marzo
info: www.gipsoteca.sma.unipi.it