«Apoteosi è una mostra che parte dal basso -delle nostre viscere- per arrivare al punto più alto, dove o si spicca il volo o si cade. Lì dove ha perso la vita pochi anni fa quell’uomo che, come fosse un detenuto, s’impiccò per chiudere in un’apoteosi, il suo viaggio terrestre… lì sul merlo più alto nell’antica torre medievale». Con queste parole Franco Losvizzero descrive la sua mostra Apoteosi, ospitata nel Castello di Orsini di Soriano nel Cimino per la Biennale di Viterbo, che chiuderà il 17 novembre.
Si può partire anche dalla descrizione sul vocabolario del significato della parola: “Assunzione al cielo di un mortale, deificazione,” oppure, “Nel teatro greco, trasformazione finale dell’eroe in divinità, simulata per mezzo di particolari macchinari”. In realtà l’idea è arrivata da Valerio, custode del Castello, che gli raccontò la storia triste di quest’uomo che si tolse la vita sulla Torre dopo un matrimonio. Il Castello è stato un carcere di massima sicurezza fino al 1989 e unisce quindi bellezza della struttura e dolore delle persone detenute.
Losvizzero ha voluto creare un percorso dal basso fino all’apice della Torre dove pronta a spiccare il volo, o a cadere, si trova la Donna-Coniglio. I primi passi dell’esposizione si trovano nelle celle di isolamento che sono state dei carcerati, che trasudano sofferenza, dove ancora vi sono le loro scritte. Infatti l’artista crea opere graffiate ed espone una foto della sua Donna–Coniglio che indica la volontà di entrare nel proprio inconscio in un posto martoriato.
In questo luogo il dolore si coniuga con l’arte: «Lavorare all’interno di un carcere con l’arte è stato il mio modo per accendere una scintilla, accendere un incendio, per creare un contrasto e magari far esplodere un emozione…» dice l’artista. Poi si accede alla cappella sconsacrata con le foto di scena delle pellicole di Pasolini, dove Losvizzero mostra il film Il grande sogno di un nano del 2007 firmato con Matteo Basilé, girato a Bomarzo, e presentato al Festival di Locarno; i vestiti che hanno usato per l’opera erano gli stessi usati nel film Il Vangelo Secondo Matteo: quale occasione migliore per ripresentarlo.
«Il Grande Sogno di un Nano è un progetto che ha a che fare con simboli e paure che abitano il nostro inconscio, esplorarlo è stato ed è come conoscere i propri limiti e i possibili “salti”. È stato un film senza compromessi dove io e Matteo ci siamo immersi in un mondo onirico senza reti, in totale libertà creativa», commenta l’artista. Accedendo al cortile si entra nella stanza della “Barberia” ove si trova la videoinstallazione che racconta Il Bianconiglio a Berlino, una performance live avvenuta nel più grande e storico teatro della capitale tedesca, il Volksbühne e che si incentra sulla ricerca di Bertold Brecht e della sua opera incompiuta Fatzer; protagonista la Donna–Coniglio, che ritroviamo spesso nel percorso artistico di Losvizzero, e che si ispira ad “Alice nel paese delle meraviglie” e induce a guardare dentro se stessi.
L’ascesa alla Torre, come ascesa dell’anima, come elevazione spirituale, come emozione che sale, è rappresentata da tre opere: Lady Stella, Il Tempio, Il Viaggio, quest’ultima creata appositamente per questa mostra. Lady Stella è un lavoro che mette insieme fotografia, pittura e scultura. Si tratta di un intervento su una foto di fine 800 con materiale plastico-ceroso che mostra una signora con una testa d’animale che indica l’alto, ovvero di salire le scale fino alla vetta. Il Tempio vede coinvolta una stampa 3D di una Donna-Coniglio realizzata in scala alta 21 cm e inserita in un ciborio di fine 700. Il risultato che ne consegue è una figura straniante in un ambiente sacrale. Proprio come immagino io il rito/la performance del Bianconiglio. L’opera è inserita in una nicchia sulle scale della torre e fu esposta alla Galleria di Pio Monti durante la personale 11 La Porta Alchemica.
Il Viaggio è una installazione site-specific nella torre antica, nella stanza di metà scalinata. Una TV portatile anni 80 – mal sintonizzata – un teschio di vacca, un ventilatore anni 70 acceso, delle vecchie stoffe e delle pietre. Una stanza rimasta intatta da quando c’era il carcere. A testimoniare un passaggio, una vita che ha trascorso qui giorni, mesi e forse anni. Una TV era il lusso, seppur in bianco e nero. Un ventilatore era un sogno per chi passava ore interminabili nelle celle. Le pietre e il teschio sono storia e passaggio. «Il Viaggio vuole essere una tappa verso il limite più alto, l’apoteosi appunto è a metà percorso della scala. Sensazioni di un luogo dove caldo, puzza di morte e sogni hanno condiviso un piccolo spazio e tanto dolore», dichiara Franco Losvizzero.
E arriviamo in cima alla Donna-Coniglio che è in bilico sulla vetta della Torre. È l’ultimo momento prima del dopo, l’avvicinamento ad un’estasi figurata, l’accompagnare verso un futuro di cui non si conoscono le fattezze, il limite tra passato e futuro. È una scultura in questo caso di vetroresina e acciaio realizzata apposta per questa esposizione con un calco di un corpo “ideale” sull’orlo del precipizio che si vede sino a 20 km di distanza. La Donna rappresenta poi la relazione tra Arte e Morte che va ad indagare l’intero precorso dell’esposizione: si raccordano tutte le tappe dal basso – il ventre brulicante – all’alto – il celestiale avvenimento – per arrivare così alla sua Apoteosi. La materia dell’inconscio che si rivela, che guida i passi di Apoteosi, è una tematica cara a Losvizzero, che realizza le sue opere facendole sgorgare da un magma interiore, materia pura che si rivela, dove vivono paure e sogni e surrealtà. Inoltre addentrarsi nelle: «debolezze e investigare anche col disegno mi fa sentire vero e sincero nel conoscere e riconoscere e mostrare la verità che tutti ci accomuna».
Alla domanda su quale fosse l’estetica dominante del suo percorso, Franco Losvizzero risponde: «Non saprei rispondere. Forse non è tanto una questione estetica; forse ha a che fare con una poetica, o con una attitudine ad una pratica concettuale. Essere fedele ad una verità intuitiva e non razionale. Ad una verità del gesto e non dell’intelletto. Ad una istintività del mio bambino interiore e non del mio “homo sapiens” ovvero uomo sapiente. Cerco, come nella pratica della meditazione trascendentale (che pratico sin da bambino grazie a mia madre) di lavorare in assenza di pensiero ed il risultato, per me, è sempre sorprendente. Poi se ripenso all'”estetica” del mio lavoro in realtà credo ci sia una grande uniformità e riconoscibilità nonostante le diverse tecniche e media in cui mi piace spaziare. Le teste in vetro, come le sculture meccaniche, come le performance e i disegni, i video così come le foto hanno un unico comun denominatore: me stesso».