Re-Stor(y)ing Oceania, una mostra racconta le identità del Pacifico

Ocean Space-Venezia ospita la rassegna curata da Taloi Havini, che ha invitato l’artista Latai Taumoepeau e l’architetta Elisapeta Hinemoa Heta a riflettere sul valore dell’Oceano Pacifico per le culture che lo abitano

Walter Benjamin scriveva che «la produzione artistica inizia con figurazioni artistiche che sono a servizio del culto», rifacendosi chiaramente a quelle rappresentazioni primigenie nate nell’ambito della
devozione alla/e divinità. L’opera d’arte espleta ancora oggi quella funzione originaria, se innesca un processo di cambiamento interiore – l’Io – che si riflette in quello esteriore – la realtà, il mondo fuori di me – in grado di modificare concretamente equilibri pre esistenti. Re-Stor(y)ing Oceania, esposizione che le OGR Torino e TBA21–Academy presentano nel suggestivo spazio di Ocean Space a Venezia, negli spazi
dell’antica Chiesa di San Lorenzo nell’omonimo campo, sembra ricordarcelo, ponendo l’attenzione su un tema, quello dello sfruttamento oceanico basato sull’estrazione mineraria (e più generalmente il globale cambiamento climatico) che è ancestralmente e naturalmente legato alla sfera del culto di un’entità, l’Oceano.

L’artista e curatrice dell’esposizione Taloi Havini, indigena originaria di Bougainville, ha invitato l’artista Latai Taumoepeau e l’architetta Elisapeta Hinemoa Heta a riflettere sul valore che possiede l’Oceano Pacifico per le culture e le numerose popolazioni eterogenee che lo abitano, nelle terre, le isole e gli atolli della vasta zona comprendente il continente australiano, Taiwan, le Filippine, Papua Nuova Guinea, le Isole Salomone, Tonga, le Samoa, le Figi e Palau, le Hawaii, l’isola di Aotearoa e Rapa Nui. «L’Oceano Pacifico è luogo che racchiude le lingue, le culture e le popolazioni più varie – afferma Havini – si tratta di zone che stanno vivendo serie minacce, come l’innalzamento del livello del mare, che costringe le popolazioni a migrare altrove. Il cambiamento climatico, inoltre, dà vita a improvvise tempeste, alluvioni e periodi di siccità. Tutte cose che devono essere affrontate ogni giorno; problemi quotidiani. È qualcosa che non possiamo ignorare».

In questa direzione muove, di fatto, Re-Stor(y)ing Oceania, verso una considerazione pratica dei problemi di natura ecologica delle isole e gli atolli oceanici. Il grande spazio espositivo antistante e retrostante l’altare della Chiesa – inaugurato nel 2019 dopo il restauro e la riqualificazione voluta dalla Fondazione d’arte contemporanea TBA21 – accoglie, nel primo caso, l’installazione sonora a 16 canali immersiva e performativa di Latai Taumoepeau intitolata Deep Communion sung in minor (ArchipelaGO, THIS IS NOT A DRILL). Questa mette in pratica, sia per mezzo dell’artista che del fruitore dell’opera, il metodo curatoriale della call to action auspicato da Taloi Havini, invitando il pubblico a prendere parte a una performance che consente ai visitatori di simulare in un’apposita arena abitata da piattaforme meccaniche e sonore, il movimento del pagaiare, in un’atmosfera che evoca non solo un rito sacro per le culture incentrate sulla massa acquatica, ma anche un canto che invita alla cura di Moana (Oceania). «Ho sviluppato questo lavoro tramite il mio corpo, per sensibilizzare concretamente circa questi temi. La mia performance ha come fine quello di mostrare la vulnerabilità delle popolazioni a sud del Pacifico. Sono convinta che la scienza e la politica siano mosse a loro volta dalle storie delle singole persone e da quelle che ereditiamo dai nostri antenati», afferma Latai Taumoepeau.

L’artista interpreta l’antico rituale Me’etu’upaki, dove me’e sta per “danza”, tu’u significa “in piedi” e paki, “con le pagaie”. Il desiderio di Taumoepeau è mantenere viva la cosmogonia degli/delle antenati/e tongani/e attraverso un’azione che coinvolge il corpo, al di là del tempo e dello spazio. Nella parte retrostante l’altare, invece, la ripresa del valore cultuale contemporaneo prende forma nella struttura The Body of Wainuiatea ideata da Elisapeta Hinemoa Heta per incarnare cerimonie e culti Maori. Un’architettura aperta costruita in legno, acciaio inossidabile e tessuto con la base in mattoni di terra ospita sedici sedute posizionate in relazione ai punti cardinali, al sorgere e al tramontare del sole. Coperta da dodici pieghe graduali in una leggera stoffa bianca che riflette i raggi luminosi provenienti dall’esterno, l’architettura rende al meglio, anche esteticamente, il messaggio culturale che diviene quasi religioso, omaggio ai “dodici livelli del cielo” della cultura Maori.

Invita lo spettatore al raccoglimento, ad un’esperienza spirituale di consapevolezza, portando con sé – secondo l’invito esplicito di Heta – gli spiriti dei propri antenati. Sull’altare sono inoltre offerte simbolicamente alcune ciotole di zucca intagliata contenenti olio di cocco profumato, come fosse un dono agli atua (divinità), nella speranza di ritrovare l’antica consapevolezza, non solo spirituale, ma sociale ed ecologica. Per certi versi, Re-Stor(y)ing Oceania ci ricorda, nella ricerca di una caratterizzazione naturale-artificiale, l’obiettivo ultimo di OGR Torino, ben espresso nelle parole del suo Presidente Fulvio Gianaria: «sviluppare una “fabbrica di saperi” in cui si lavora all’intreccio tra creatività artistica e tecnologica».

*L’articolo è stato pubblicato sul numero #131 di Inside Art.

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