Da un lato un mercato sempre più forte, invasivo, prepotente e predominante. Dall’altro lo spazio aperto di spazi indipendenti. E non è un gioco di parole: è quell’area fuori dal mercato dove si tentano strade alternative. Basterebbero queste due polarità per descrivere, in estrema sintesi, come è cambiato negli ultimi vent’anni il mondo dell’arte. Vent’anni densi di accadimenti, di trasformazioni, a volte di rivolgimenti. E allora vale la pena raccontare, più nel dettaglio, cosa è successo davvero.
Cominciamo dal grande Moloch: il mercato. Negli ultimi vent’anni l’arte è diventata definitivamente un bene di lusso. Non è un caso che le grandi case d’asta, a loro volta sempre più potenti per stabilire cosa funziona e cosa non funziona nel mercato, propongano insieme agli orologi da collezione, i vini da collezione, le borsette da collezione, a volte anche le ville da collezione, le opere da comprare. Come bene di lusso, l’arte non conosce crisi. Sono anni che, a parte la leggera flessione registrata nel 2023 (venti di guerra e quindi un po’ di prudenza), il segmento maggiormente in crescita è la fascia alta o altissima del mercato: le acquisizioni che superano le decine di milioni di dollari. Si tratta di un banchetto cui si siedono i super ricchi del pianeta, anche loro sempre più ricchi, distanziandosi sempre di più dalle altre fasce della popolazione mondiale.
Un banchetto apparecchiato dalle grandi gallerie internazionali che, da una prima apertura generalmente negli Stati Uniti, si sono moltiplicate in tante sedi nei più svariati angoli del mondo: un po’ di Europa (Londra, Bruxelles, Parigi e Gstaad), tanta Asia – Hong Kong e Seoul – e di nuovo America: Los Angeles. Una geografia dell’arte che ricalca quasi pedissequamente la dilatazione geografica delle più importanti fiere del mondo: Art Basel e Frieze, che, dopo Miami (la “generona” Art Basel Miami Beach), sono sbarcate a Los Angeles, Hong Kong, Seoul, Parigi, città che, dopo la Brexit, hanno sostituito Londra come hot spot dell’arte contemporanea in Europa.
Questo è il quadro, e da qui non se ne esce. Dove anche il collezionismo fa la sua parte per decidere, insieme alle super gallerie, chi sono gli artisti del momento e quelli dei prossimi cinque, massimo dieci anni. Sì, perché il turnover è sempre più veloce, tipico di un mondo affamato di novità da consumare in fretta. Quindi non esiste nient’altro al di fuori dell’arte bene di lusso nelle mani di pochi o pochissimi? No, tutto il resto continua ad esistere, e lo vediamo con gallerie, fiere, aste locali eccetera, ma non sposta niente. È semplicemente ininfluente.
E il museo? Cosa è diventato il museo che tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo millennio ha conosciuto una fortuna mediatica mai vista prima? Un po’ è cambiato. Vediamo in che modo. Il Guggenheim di Bilbao apre le sue scintillanti porte nel 1997. Più che un museo sembra una macchina delle meraviglie: lucente, sfaccettato, decostruito e reinventato dall’archistar Frank O. Gehry, un luna park del piacere visivo, dell’enfasi che in quegli anni – fino al 2008, quando anche sul dorato mondo dell’arte si abbatte la mannaia della crisi economica – caratterizza l’arte contemporanea. E molte città, in Europa e nel mondo, tentano di dotarsi di una simile, seducente macchina acchiappa-turismo, che nel frattempo è diventato sempre più planetario e con velleità culturali.
Nel 2000, proprio nel passaggio al terzo millennio, apre la Tate Modern di Londra. Molto meno appariscente e molto più di sostanza, ma pur sempre potente attivatore mediatico. Contribuisce alla grande narrazione di quegli anni che vuole che dei musei si parli sempre di più, che l’arte contemporanea sia sempre più cool, che Biennali e Triennali fioriscano ovunque e richiamino sempre più pubblico e per cui non c’è grande architetto al mondo che non voglia lasciare la sua impronta su un museo. Che diventano superarchitetture, a scapito dei progetti culturali che dovrebbero incarnare. Oggi, che di soldi ce ne sono molti meno, di nuovi spettacolari musei ne nascono ben pochi. Solo negli Emirati Arabi e in Cina, dove sono per lo più privati. Immensi, mirabolanti, ma senza il marchio statale.
Nel resto del mondo il museo vuole essere un soggetto più etico, accogliente, che propone tanta educazione (visiva e non solo), soprattutto inclusivo. Che opera per integrare minoranze, per superare i gap di genere che addirittura guarda ai flussi migratori e che cerca di decolonizzarsi. Almeno sulla carta, come recita l’ultima definizione che del museo ha dato ICOM (l’organizzazione internazionale che riunisce i musei del mondo) nell’agosto 2022. Nella realtà le cose sono un po’ diverse. Ma a togliersi la maschera della creatura blockbuster per indossare la maglia etica e sostenibile, i musei un po’ ci provano.
Tutto qui? No, perché non abbiamo parlato del segmento più importante che tiene in piedi il mondo dell’arte, contemporanea e non: gli artisti. A parte le artistar che appartengono alla sfera dei potenti, alcuni artisti agiscono in maniera molto diversa. Anzitutto creandosi degli spazi propri e di aggregazione dove confrontarsi, almeno inizialmente svincolati da logiche di mercato. Mi riferisco ai tanti spazi no profit o artist running space nati negli ultimi anni. Non che in passato tutto questo non esistesse, ma mai è esistito come ora. E, in questi spazi e negli studi dove lavorano alcuni artisti, mi sembra di intravedere spinte, movimenti nuovi. Mi sembra che negli ultimissimi anni, più o meno dopo la pandemia, specie gli artisti più giovani mostrino una sensibilità diversa, non omologata al mercato e a tutto ciò che gli gira intorno.
Mi sembra, e spero vivamente di non sbagliarmi, che circolino riflessioni sulla difficile, spesso drammatica epoca che stiamo vivendo. C’è chi cerca di tradurre in arte attenzione e proposte riguardo il cambiamento climatico, chi guarda seriamente ai flussi migratori, chi prova a confrontarsi con la scienza e con la tecnologia, con l’intelligenza artificiale. Chi, insomma, si mette in gioco e intende essere parte del gioco. Ma con una differenza sostanziale rispetto anche al passato più recente. Non c’è l’adozione di linguaggi, sia pure di denuncia, ma estranei al mondo dell’arte. Non si vede più in giro, o molto meno di prima, l’artista che apre la telecamera e registra l’intervista alla minoranza di turno.
Mi sembra, invece, che ci sia sottotraccia il tentativo di affrontare le emergenze del nostro tempo con un linguaggio proprio dell’arte. Ancora da articolare, da sviluppare, ma diverso da prima. Ecco, se c’è finalmente un cambiamento di questi ultimi vent’anni – tanti ne compie Inside Art che ha cercato di testimoniarli – mi sembra che risieda qui. Forse oltre che un cambiamento, è una speranza, un impegno a cui però bisogna dare fiducia. L’arte ha sempre avuto bisogno di qualcuno che le credesse. Che fosse mecenate, gallerista, collezionista o critico.
L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #131.