Paesaggi sonori: parla Massimo Bartolini, l’artista del Padiglione Italia

Premesse per un'architettura dell'effimero, invertire il paradigma privilegiando l'ascolto. Intervista con l'artista del Padiglione Italia alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia

Percorrere un paesaggio sonoro è un’esperienza molto diversa da quelle a cui oggi siamo abituati. Gli inciampi visivi, una volta ridotti, lasciano spazio all’ascolto, trasportandoci in un universo impalpabile meno immediato, più meditativo. «È un’apologia di sovvertimento di un ordine – spiega Massimo Bartolini, che alla Biennale Arte 2024 rappresenta il Padiglione Italia con Due qui / To Hear, progetto promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura e curato da Luca Cerizza – se la vista ha bisogno di frontalità e dialettica, di un continuo scambio tra un gruppo limitato di persone che ti stanno davanti, l’ascolto privilegia una percezione più ampia, totale. Il suono a noi umani dà meno informazioni rispetto a quelle percepite dagli animali e le informazioni che ci dà vanno completate con un aspetto di narrazione, di memoria».

In uno spazio scarno di oggetti, Massimo Bartolini ci invita a una sosta prolungata, a un’amplificazione sensoriale, a un momento di concentrazione che ci conduca oltre l’immagine a riformulare i nostri paradigmi. «È un tentativo di riformare un paesaggio iniziato tanto tempo fa – precisa l’artista – lo farei partire da Pierre Schaeffer, quando cominciò a registrare suoni dalla strada, o dalle teorizzazioni di John Cage».

Negli stessi anni in Europa c’erano anche personaggi come Pierre Boulez, Luciano Berio, Luigi Nono, che hanno avuto un peso rilevante nella musica d’avanguardia. Come si inseriscono invece in questo paesaggio sonoro i musicisti che hanno preso parte al progetto che provengono prevalentemente dall’elettronica?

Le due musiciste, Caterina Barbieri e Kali Malone, le ho individuate insieme al curatore del Padiglione Italia, Cerizza. Le conoscevo poco, ma abbiamo orientato la scelta su di loro soprattutto per il fatto che hanno ripreso certi aspetti di una musica che è stata per me molto importante, quella tra gli altri di La Monte Young e del Minimalismo statunitense. In queste musiciste è stata riattivata un’energia propria di questo genere di musica degli anni ’60, dai vertiginosi cristalli sonori elettronici di Caterina Barbieri agli spontanei venti dei microarmonici di Kali Malone. L’ultimo musicista coinvolto, Gavin Bryars, è invece un vecchio amore, un piccolo sodalizio segreto iniziato tanto tempo fa nel mondo dei desideri, concretamente solo da due anni, rivelandosi, dal vero, molto fruttuoso sia umanamente che professionalmente.

Nello spazio come si traduce la scelta di privilegiare il suono limitando la vista?

Non intendo limitare la vista, direi che mi piacerebbe dare lo stesso peso anche al suono. Nel giardino dei ghetto blaster sparsi sugli alberi riproducono una composizione di Bryars con il testo di una poesia dell’autore argentino Roberto Juarroz, che ha a che fare con il “radicarsi” nello spazio. Il lavoro all’interno del Padiglione, in generale, è invece in continuità con la mia pratica, con quello che sto facendo da una ventina di anni: la realizzazione di macchine sonore. Anche parte del progetto del Padiglione è una macchina sonora ispirata alla musica veneziana del Seicento e, difatti, il lavoro è profondamente radicato alla città da un punto di vista sia concettuale sia fisico.

In questa macchina sonora c’è una relazione tra le due musiciste, Malone e Barbieri: ci sono delle armonie che nel loro farsi si strutturano in forma di canone e le musiciste si completano o comunque si riverberano come nei Cori Battenti che furono inventati per San Marco per spostare il suono attraverso echi e risposte per percorrere le lunghe campate della chiesa, echi e ripetizione furono allora, come oggi per le musiciste qui coinvolte, motivi di meraviglia e di ricerca per i mondi che rivelavano così come i sonar rivelano lo spazio per le balene.

Il lavoro fa pensare senz’altro all’organo che hai presentato al Centro Pecci di Prato qualche anno fa.

Sì, è così, ha le caratteristiche di quell’organo ma sono cambiati tutti gli assunti e le prerogative. Inoltre, in questo caso, i musicisti sono due e questo ha richiesto di avere due rulli dentati, che girano in sync al millimetro, e questo vuol dire che devono essere perfettamente uguali, allineati e muoversi alla stessa velocità, serve una tecnologia piuttosto attenta e contemporanea per oggetti che sono nati ben prima del rinascimento.

In effetti agli inizi del mio lavoro ero più vicino all’uso di tecniche più contemporanee, adesso mi piace che nel manufatto tecnologico rimanga sempre impressa anche la figura della mano. Sono partito da una tecnologia tendente all’astratto e ora sono arrivato a una strana macchina caracollante, molto umana. Questa tecnica con i tubi innocenti è analoga a quella utilizzata per il Pecci ma, se vogliamo, in questo caso è ancora più potente: qui il ponteggio è effettivo, appoggiato in terra, potrebbe proprio essere la premessa della costruzione, costruzione, anche il ponteggio, che a sua volta puoi disfare.

Un’impalcatura, insomma. Non a caso citi spesso Nicola Zabaglia, che alla fine del Seicento veniva chiamato dai papi per le sue abilità nella realizzazione dei ponteggi per il restauro della cupola di San Pietro. Da dove proviene questa fascinazione per l’architettura?

Ho una formazione da geometra e questo mi ha dato una grande capacità di percepire le qualità dello spazio perché la geometria è un modo di pensare all’astratto con le mani. Anche i miei primissimi lavori erano pavimenti, angoli, sono sempre stato dentro questo mondo. Mio padre, poi, era un piccolo impresario edile e quindi sono cresciuto sui ponteggi, mi piaceva frequentare i cantieri. Il ponteggio in sé è una scultura che premette a una scultura, non tende all’eternità ma a essere facilmente montabile e smontabile. Nel Padiglione non abbiamo costruito neanche un centimetro quadrato di cartongesso, rispettando in primis lo spazio, ed è un aspetto molto importante perché di scarti ce ne saranno davvero pochi. I materiali dell’architettura per l’eternità producono rovine, quelli per l’architettura temporanea possono essere montati e smontati senza che perdano le loro caratteristiche di materiale costruttivo.

L’elemento meno effimero del Padiglione sembra essere quindi il Bodhisattva, questa semidivinità che se ne sta seduta a pensare e non fa nulla. Credi che la filosofia orientale possa essere ancora oggi un punto di riferimento per guardare a un nuovo modo di vivere? Sono maturi i tempi per guardare a nuovi modelli di decrescita diversi da quelli occidentali?

Certamente, lo sono sempre stati ma è una scelta precisa quella di censurarli. Certi modelli approdano in nicchie, si elitarizzano e spesso vengono disattivati in una miriade di rivoli, digeriti dal sistema capitalistico e vanno a finire dentro ai centri benessere piuttosto che nella vita di tutti i giorni. Il Bodhisattva è un incontro fatto tanti anni fa in cui oggi continuo a rispecchiarmi. La statua è nella prima sala, posata su un basamento di una canna d’organo lunga 25 metri che emette un unico La bemolle in continuo, un suono molto basso, vicino all’inudibile. È un modello che forse si potrebbe definire francescano, ha a che fare con tutto ciò che spinge verso la condivisione, l’empatia, la misura, a una forma di inazione di consapevolezza, a tutto ciò che istiga a essere parchi. Bisogna imparare dalle società che vengono dalla penuria.

Sembra più un percorso pensato per essere attraversato in solitudine, che esclude un modello partecipativo e relazionale a cui oggi invece tanti artisti fanno appello.

Secondo me ci siamo accorti, rispetto agli anni avanti, che partecipazione non vuol dire libertà. Anzi, vuol dire essere ancora più controllati, schedati. Ma in arte la relazione è inevitabile. Arte relazionale a me è sempre sembrata un pleonasmo.

E Gaber?

Chissà se Giorgio Gaber ricanterebbe quella canzone. La libertà a cui pensava non è più la stessa libertà e neanche la partecipazione è più la stessa. Più sono libero di partecipare, più sono controllato, parafrasando Byung- Chul Han. Più sei libero di esprimerti e più ho potere su di te. Se la partecipazione prima era la chiave della visione, oggi serve anche la consapevolezza. Se so quello che succede sono una persona retta e allora la mia partecipazione avrà a che fare con la giustizia. Se non sono retto e consapevole, quella partecipazione in realtà diventa una forma di schiavitù.

Ecco perché mi piace l’idea di coltivare umilmente e il più tranquillamente possibile l’impersonale di ognuno di noi, come diceva Simone Weil. Quella cosa che è l’oggetto, il campo nella quale la rettitudine cresce, quella grazia. Questa è l’unica cosa che valga la pena perseguire e non si coltiva con le adunanze. Tra i ragazzi a cui insegno vedo un bel modo di stare insieme, sembrerebbe che una certa attenzione e giustizia siano tornate di moda. Questo è quello che a me piace e che penso come futuro. “Le adunanze sanno sempre di caserma”.

Nel tuo insegnamento che cosa consigli ai giovani artisti? È un dato di fatto che l’arte italiana abbia difficoltà a farsi riconoscere fuori dai confini nazionali.

Forse noi italiani, per tante ragioni, viviamo con il senso di colpa di avere una grande storia. Ci dicono che siamo rimasti all’arte povera? E quindi? Io se per questo mi sono fermato al Rinascimento. Serve solo riuscire a portare a vivere nell’attualità questa storia. Bisognerebbe rialzare la testa dalla nostra storia che non è un carico ma è una risorsa. Starci sopra in piedi. Ci sono artisti fantastici come Danh Vo che gioca con le antichità, con i templi antichi. Fuori dall’Italia c’è un atteggiamento opposto: rimettere in gioco il passato riattiva il presente e il futuro, anche se passato, presente e futuro sono categorie che non descrivono più il tempo. Vivo vicino allo studio di Desiderio da Settignano, so dove abitava, vedo tutti i giorni la sua porta, ci abita una signora gentile… per me non può essere storia.

Anche oggi niente, era il 2008 quando al MAXXI facevi apparire con la caduta di 250 lampade questa scritta. Pensi sia ancora attuale?

Anche oggi niente per me era una speranza, non una constatazione né un’esortazione. Pensando allo spazio che ho concepito per il Padiglione Italia credo sia altamente educativo: non avere più niente potrebbe essere un luogo nel quale si fanno dei buoni pensieri. Trovare uno spazio aperto, non invaso, non compilato, uno spazio nel quale uno riesce a fare un pensiero risolutivo per sé o per gli altri. Quella frase per me è un augurio che rimane attuale.

Chi è Massimo Bartolini

Massimo Bartolini è nato a Cecina nel 1962, dove vive e lavora, dopo gli studi da geometra a Livorno si è laureato all’Accademia di Firenze. È docente di arti visive alla NABA di Milano e all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Dal 1993 espone in numerosi spazi pubblici e privati in Italia e all’estero.

Grandissima è la varietà di linguaggi e materiali che Massimo Bartolini adotta nella sua pratica: dalle opere performative che coinvolgono attori temporanei, il pubblico o lo spazio architettonico, ai disegni eseguiti in tempi volutamente lunghi; dalle grandi installazioni pubbliche, spesso realizzate con la collaborazione di altre mani e conoscenze, alle piccole opere-bozzetto assemblate in studio; dalle complesse sculture sonore fino alle fotografie e ai video. Il suo percorso artistico è quindi orientato verso una continua scoperta e indagine del linguaggio dell’arte, come a cercare ogni volta il materiale più adatto per dare forma a un’esigenza espressiva e a una possibilità narrativa.

L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #131.