This is the End: ma l’arte in questi anni difficili cosa fa?

Alla Reggia di Monza, una mostra collettiva in cui l’arte contemporanea incontra altre discipline per riflettere sui grandi problemi del nostro tempo

La sala convegni della Reggia di Monza ospiterà fino al prossimo 9 giugno la mostra collettiva This is the End curata dall’Associazione Culturale END, nata nella città brianzola nel 2023 e impegnata in progetti espositivi focalizzati sull’arte contemporanea nonché nella creazione di una rete di artisti, curatori, galleristi ed enti istituzionali dislocati nel territorio.

La mostra si è aperta sabato 18 maggio con un vernissage al quale hanno preso parte i dieci artisti coinvolti (Elisa Cella, Nicola Evangelisti, Nadia Galbiati, Roberto Ghezzi, Elena Ketra, Camilla Marinoni, Andrea Meregalli, Gabriele Micalizzi, Silvia Serenari, Matteo Suffritti) e Simona Bartolena, autrice di uno dei due testi introduttivi del catalogo assieme a Giorgio Bonomi.

Come spiegato da Silvia Cella, presidente dell’Associazione End e ideatrice del progetto assieme a Matteo Suffritti, Silvia Serenari e Nadia Galbiati, lo spunto per questo evento espositivo è sorto nel 2023, all’indomani della pandemia e dell’invasione dell’Ucraina, nel tentativo di elaborare una riflessione sui problemi dell’attualità e sui rapidi cambiamenti che la società contemporanea sta attraversando.

Il cambiamento climatico, gli eventi bellici, le malattie, la violenza (in tutte le sue forme – fisica, psicologica, morale – e soprattutto ai danni delle donne), l’urbanizzazione selvaggia, gli esodi migratori, il dilagare dell’intelligenza artificiale e le sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana, sono tutte questioni con cui costantemente siamo chiamati a confrontarci e che mettono in luce la complessità della realtà in cui viviamo, la quale spesso sfugge alla nostra piena comprensione.

Sorge dunque una domanda: “Ma l’arte in questi anni difficili cosa fa?”

Questo è il titolo che Simona Bartolena sceglie di dare al suo testo critico e che costituisce una sorta di dichiarazione d’intenti dell’intera mostra: non un tragico pessimismo, una passiva accettazione dei mali del mondo, bensì una riflessione critica ad opera dell’arte sulle sfide che la realtà ci sottopone. Un’arte fortemente ingaggiata e libera che, sempre citando le parole di Bartolena, deve mirare a “rivestire di un abito estetico (dove estetico non significa, ovviamente, dalla bellezza stereotipata e piacevole) questioni che non devono essere motivo di terrore e catastrofismo, ma che devono necessariamente essere affrontate”.

Un’arte, quella presente nella mostra monzese, mai pretestuosa e occasionale ma davvero capace di svolgere un’analisi consapevole dei temi presi in esame, grazie alle ricerche pluridecennali che gli artisti coinvolti hanno condotto attorno a essi e grazie anche al contributo degli scienziati e dei professionisti che li hanno affiancati, scrivendo i testi di accompagnamento alle loro opere poi pubblicati nel catalogo dell’esposizione.

Peculiarità principale di questa mostra, infatti, è la vocazione all’interdisciplinarietà che si concretizza con una spiccata volontà di creare connessioni tra ambiti del sapere eterogenei e che è confluita in una tavola rotonda, svoltasi sabato 25 maggio presso la sala conferenze della Reggia. Durante questo incontro, il pubblico ha avuto modo di ascoltare gli interventi di questi specialisti provenienti dai settori più disparati, dall’infettivologia all’architettura, dalla filosofia alla glaciologia, passando per le testimonianze portate dal Centro Aiuto Donne Maltrattate di Monza e dal Gruppo Emergency Monza e Brianza.

Ecco allora che gli acrilici su tela di Elisa Cella (2023), che ritraggono virus e patogeni fantasiosamente dipinti con colori sgargianti, sono accompagnati da un testo di Marinella Lauriola, medico infettivologo presso il Policlinico di Monza, oppure le cianotipie di Roberto Ghezzi (The Greenland Project, 2022) ci vengono presentate assieme al contributo di Biagio Di Mauro, ricercatore presso l’ISP (Istituto Scienze Polari).

Le opere di Ghezzi sono infatti il risultato di una residenza artistica da lui svolta presso la Red House di Tasiilaq, in Groenlandia, durante la quale ha studiato gli effetti del cambiamento climatico e dell’alga rossa sullo scioglimento dei ghiacciai, producendo 50 opere su carta fotosensibilizzata (le cianotipie, appunto) che catturano l’immagine di tale fenomeno rendendo, tra l’altro, la natura stessa co-autrice assieme all’artista. Le opere di Ghezzi, che sono poi state sottoposte agli scienziati fornendo loro un nuovo strumento di studio, evidenziano – usando le parole dell’artista – l’esigenza di uno “spostamento di sguardo, di un cambio di prospettiva nella comunicazione che viene fatta del cambiamento climatico”, stimolando al contempo nuove possibilità di conoscenza scientifica oltre che di ricerca artistica.

L’analisi delle criticità del contemporaneo proseguono poi con l’installazione di Camilla Marinoni, (L’immortalità non consola della morte, 2022), accompagnata nel catalogo da un testo di Bona Gavazzi (fondatrice di C.A.DO.M, il Centro Aiuto Donne Maltrattate monzese), che deriva da una performance da lei realizzata in precedenza presso il Museo Archeologico di Savona e dedicata alle donne vittime di violenza. Come ricordato da Gavazzi durante la tavola rotonda, gran parte dei femminicidi (termine emblematico che designa non solo un assassinio ma l’uccisione di una donna in quanto donna) avviene tra le mura domestiche, ad opera di familiari, del partner o dell’ex partner. Proprio questo viene posto in risalto da Marinoni: i teli che costituiscono la sua installazione non sono altro che un lenzuolo matrimoniale strappato mentre gli elementi in ceramica poggiati a terra sono una sorta di calco concavo di gambe e schiene femminili. “La violenza ti pugnala alle spalle e ti taglia le gambe” afferma Marinoni, riprendendo queste frasi idiomatiche che descrivono appieno il tradimento vigliacco che sta alla base del femminicidio, perpetrato spesso dalla persona in cui si era riposta fiducia. Dopo la violenza, quello che resta è il ricordo, il quale però non basta per riportare indietro ciò che è stato.

Non manca poi il tema dell’impiego dell’intelligenza artificiale nella produzione artistica che viene messo a fuoco, in relazione alla questione del cambiamento climatico, da Silvia Serenari con testo di accompagnamento redatto da Luca Ribechini, Presidente del Livorno Porto Pulito APS. Le sue stampe digitali Naturalis et Artificialis (2023) sono infatti realizzate a partire da immagini digitali create con l’intelligenza artificiale DALL-E2 sulla base un in put testuale, per ottenere fotografie (per esempio, quella di una foresta incendiata o di una landa siccitosa) che altrimenti non potrebbe reperire di persona. La riflessione sull’AI – ormai al centro del dibattito filosofico e artistico – e sul cambiamento climatico si innesta nella ricerca artistica di Serenari che da anni si concentra sullo studio della pratica alchemica e dell’esoterismo: queste immagini di distruzione ottenute con l’intelligenza artificiale, infatti, vengono poi rielaborate digitalmente in modo da ottenere dei mandala, di grande grazia estetica, che paiono costituiti da fuoco o acqua, elementi alchemici per eccellenza. Ecco quindi che dalla distruzione, da quello che può essere percepito come “male”, l’arte può comunque generare del bene e del bello.

Questi sono naturalmente sono alcuni esempi delle questioni che vengono trattate e dei media artistici che sono stati impiegati nella realizzazione di This is the End, ma ben sottolineano come la missione che questo progetto ha scelto di perseguire sia la creazione di un ponte tra discipline (artistiche e non), fatto di sinergie e scambi reciproci, mai gerarchici bensì volti a una collaborazione operosa per tutte le parti coinvolte (è significativo per esempio che Di Biagio, parlando delle cianotipie di Ghezzi durante la tavola rotonda, abbia rilevato come talvolta la scienza si trovi ad affrontare difficoltà di rappresentazione e che le opere dell’artista abbiano effettivamente aiutato i ricercatori a individuare elementi fino a quel momento da loro ignorati).

Ecco, in questi tempi difficili, l’arte (quella consapevolmente coinvolta e impegnata) cosa fa: tenta di promuovere un superamento dei confini disciplinari per stimolare la riflessione e la comprensione, spingendoci a ragionare sul nostro ruolo nella società e sulle nostre responsabilità nei confronti degli altri e del pianeta. Ci esorta, insomma, “a prendere coscienza e a lottare per una umanità più sicura e migliore”, citando le parole che Bonomi pone a chiusura del suo saggio introduttivo.

This is the End quindi, contrariamente a quanto potrebbe suggerire il titolo di primo acchito, non ci getta nella disperazione di una fine imminente ma, anzi, si pone come un invito a reagire, per quanto problematico e desolante possa talvolta apparirci il futuro (interessante, a questo proposito, è stata la scelta di inserire al termine del catalogo anche i contributi di due ragazzi di 18 e 19 anni, nei quali con parole semplici e schiette manifestano i loro timori per il loro avvenire).

Nella paura, sembra dirci This is the End, si può (si deve) trovare un sollievo, un appiglio.

Can you picture what will be / So limitless and free / Desperately in need of some stranger’s hand / In a desperate land”, canta Jim Morrison nella celebre canzone dei Doors che dà il titolo alla mostra.

E se la “mano ignota in una terra disperata” fosse proprio quella dell’arte?

This is the End
fino al 9 giugno
Reggia di Monza – viale Brianza, 1 Monza

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