Ri-creazione sonora, ri-creazione immaginaria: dialogo con ALMARE 

Nel mondo di Dorothea una tecnologia chiamata ECHO, recupera le onde sonore impresse su qualunque oggetto, come un sono-reperto archeologico

Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. è il risultato di un processo lungo e stratificato, con cui ALMARE, collettivo artistico e curatoriale che da anni esplora e lavora il suono come medium espressivo, accompagnato dalla curatela colta e appassionata di Radio Papesse, ha dato vita a un denso immaginario. Nel mondo di Dorothea una tecnologia chiamata ECHO, permette di recuperare le onde sonore impresse nei secoli su qualunque oggetto, rendendolo leggibile come un sono-reperto archeologico. Questi reperti tuttavia non sono delle vere e proprie estrazioni bensì delle simulazioni: delle sommatorie di tutte le vibrazioni che hanno impattato una superficie e che ECHO ricostruisce, “trascrive”, a discrezione di chi lo manipola. «ECHO non fa suonare nulla. Elabora la percetione umana di un suono antico, la sua ascoltabilità, una ricreatione». Di seguito, si ripercorrono i passi, gli stimoli, e le riflessioni sottostanti a questa grande ricreazione del mondo che conosciamo, o che crediamo di conoscere. 

Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. è un film e audio-racconto stratificato, dal quale si dipanano numerose direzioni ed elementi che vorrei approfondire con voi. Partiamo dunque dalla genesi: quando e come nasce l’idea di realizzare questo lavoro? 
Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. è il risultato di un lungo processo di lavoro; la matrice sta nel nostro interesse per le tecnologie di registrazione sonora, ma volendo trovare un punto di partenza preciso, potremmo tornare indietro alla primavera 2019, quando abbiamo cominciato ad interrogarci sul gesto del registrarsi da sé. La pratica dell’auto-registrazione si lega inevitabilmente alla possibilità di un monitoraggio delle proprie azioni, eseguite nell’intimità, a prescindere da una diffusione futura. Allora scrivevamo che «riascoltarsi è una forma di reiterato auto-controllo, ancora e di nuovo, che stipula un regime di auto-verifica se non di autodisciplina, un ridondante editing all’ennesima. Posso dettare a me stesso e la mia voce può farsi altra-da-me.» Si tratta di un oggetto-gesto estetico che intreccia l’evoluzione delle tecnologie e dei media, il rapporto tra tecnica, memoria e auto-rappresentazione. 

Così abbiamo cominciato a costruire un progetto di analisi teorica e curatoriale; il primo risultato è stato un’acerba performance-lecture, poi siamo arrivate alla costruzione di quella che abbiamo definito una “miscellanea” di auto-registrazioni, ovvero una raccolta, ibrida e disomogenea, di suoni registrati da artisti, musicisti ma anche curatori, giornalisti, scrittori, teorici, filosofi, tecnici che abbiamo invitato a contribuire a questo progetto on-going, inviando note vocali, appunti registrati, audio-sketch, pezzi suonati, canzoni. Il titolo era All Signs Point to Rome, Diane, una citazione dall’iconica serie televisiva Twin Peaks (1991), ideata da David Lynch e Mark Frost, nella quale vediamo spesso l’agente Dale Cooper registrare, tramite dittafono portatile, brevi messaggi vocali indirizzati alla sua assistente Diane. Grazie al contributo delle persone invitate a collaborare, la ricerca è andata stratificandosi pressoché all’infinito; in quel momento è sorta l’idea di fare ricorso alla fiction, nella sostanziale impossibilità di includere la grande quantità di stimoli raccolti con modalità d’indagine più convenzionali. Tra i numerosi stimoli di ricerca, c’era anche una peculiare teoria pseudoscientifica sviluppata nel XIX secolo, in concomitanza con il crescente sviluppo delle tecnologie di registrazione. Si tratta dell’archeoacustica, che suggeriva la possibilità di rintracciare fenomeni acustici del passato rimasti impressi nella materia. Una sera, ci siamo posti la domanda alla base di tante storie di fantascienza: e se fosse possibile?

Il testo che segue le avventure della protagonista alla quale è affidata la narrazione in prima persona, è una composizione elaborata di citazioni, linguaggi e registri stilistici appartenenti a diverse epoche temporali. A quali mondi, autrici, autori avete attinto per la sua costruzione? Life Chronicles è scritto in prima persona ma l’identificazione tra la voce narrante e la protagonista è puramente suggerita, mai esplicitata. Chi ascolta/guarda il film deduce che a parlare sia Dorothea, nonostante il suo nome non compaia o quasi, e l’unica voce del film sia quella di un uomo. La finzione narrativa (e uditiva) è attivata da questa astrazione, evasione anzi, dell’identità di chi racconta, al pari di una fabula. Le cronache di Dorothea potrebbero essere lette da chiunque, addirittura da una macchina. Non è dato a sapersi. In questo senso l’immaginario favolistico, in particolare tra il XVI e XVII secolo, è stato un punto di riferimento importante per l’equilibrio retorico della sceneggiatura. In quei secoli è cominciata la grande raccolta e trascrizione (pensiamo a Perrault, Basile, Straparola) di leggende e racconti “popolari”, sopravvissuti per via orale, tramite l’ascolto e la ripetizione, e che per generazioni hanno fagocitato varianti e aggiunte nella più sregolata apocrifia. Una volta trascritte, editate e pubblicate, queste fiabe hanno mantenuto il carattere spurio, corrotto, delle molteplici fonti che le compongono. Una stratificazione di linguaggi che ci interessava particolarmente per le molte similitudini con la nostra trama. 

Dorothea parla come ECHO, assimila le voci dei membri di ALMARE e delle autrici e autori che hanno accompagnato la nostra ricerca in quanto collettivo: compaiono riferimenti teorici contemporanei come “Sonic Warfare” di Steve Goodman o “Il suono come arma” di Juliette Volcler, ma anche e soprattutto opere letterarie di William S. Burroughs, Guido Morselli e Cristina Campo solo per citarne alcune. Ci interessava che Life Chronicles fosse il risultato di questa polifonia ricreata. Volevamo che Dorothea parlasse un linguaggio altrettanto apocrifo, a metà strada tra l’italiano “nostro”, di oggi, e uno stile affettato, fintamente arcaico, “trascritto”, “copiato”, difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo. La costante presenza dei sottotitoli ribadisce questa ambiguità tra scrittura e oralità, tra uno spazio di declamazione e ascolto pubblico e uno privato, in cui le informazioni sono recuperabili, editabili, vendibili, cancellabili.»

La dimensione linguistica riflette allo stesso modo la pluralità di immaginari che sorreggono l’opera. Quella del diario per esempio è una forma narrativa spesso presente nella letteratura fantascientifica e distopica – Paul Auster, Jonathan Franzen, i primi che mi vengono in mente – mentre la ripartizione episodica offre uno sguardo anche all’approccio favolistico. Che ruolo ha ciascun episodio nell’equilibrio generale del film? 
Per la restituzione visiva del diario sonoro, abbiamo attinto dalla struttura degli audio-logs, tropo essenziale nella drammaturgia dei videogiochi. Gli audio-logs sono delle auto-registrazioni vocali lasciate dagli ex abitanti dell’area che il giocatore sta esplorando. Solitamente servono a completare gli elementi narrativi del gameplay senza rallentare l’azione. La compresenza di elementi sonori in un contesto visivo ci sembrava caratterizzare in modo forte l’esperienza estetica di un film in cui la costruzione di un immaginario visivo è affidato  alla sola parola scritta. 

Life Chronicles si struttura come un diario composto da sequenze di audio-logs, o brevi scene, raggruppate in 3 episodi e un prologo. Nei primi due episodi seguiamo, tramite flashback e flashforward, lo svilupparsi di una rete di contrabbando di sono-reperti che Dorothea gestisce assieme ai colleghi e amici Juliette, Tancred e la sig.na Lowenhaupt. Grazie a loro Dorothea riceve una borsa di studio finanziata dall’industria bellica e dalla potente confraternita universitaria S.P.U., per studiare tracce sonore di azioni militari. Durante le sue ricerche Dorothea estrae una sequenza di fischi, colpi di cannone e sirene navali sovietiche. Questa scoperta suscita l’interesse di improbabili compratori, collezionisti senza nome, professori corrotti, disposti a tutto pur di entrare in possesso di quelle «reliquie parlanti». Il terzo episodio rompe la narrazione degli episodi I e II, ma non sveliamo i dettagli. 

Sicuramente possiamo dire che per quanto la forma diaristica sia spesso utilizzata come espediente narrativo nel genere della fantascienza, i nostri riferimenti sono stati primariamente letterari. “Dissipatio HG” di Guido Morselli è stata forse la più importante referenza in termini di scrittura. Il libro è ambientato in un presente in cui il genere umano – l’HG (Humani Generis)del titolo – è scomparso misteriosamente, e il protagonista relata della sua inspiegabile esclusione dall’apocalisse. L’altro importante riferimento stilistico è stato How I became One of the Invisible, 1993, di David Rattray (1946-1993), autore statunitense ancora poco conosciuto in Italia, traduttore di riferimento di Antonin Artaud, René Crevel e Roger Gilbert-Lecomte. In questo suo romanzo, unico libro pubblicato in vita, Rattray fa una parodia di un diario-memorie nello stile della beat generation: gioventù bruciata, abuso di droga, viaggi messicani on the road, finché pian piano il libro non diventa una collezioni di pensieri, poi saggi, su Artaud, sulla musica medievale, sul cinema di Chris Marker (altra influenza capitale per Life Chronicles), e la trama finisce per sgretolarsi in una raccolta di poesie. Tutto il terzo episodio di Life chronicles è una riscrittura di Rattray. Come Morselli, “How I became One of the Invisible” è una favola-manuale sulla scomparsa, sulla perdita, sull’evasione dal mondo o sul desiderio di farne parte altrimenti.  

In questa società distopica vige una norma, che è appalto delle istituzioni deputate al controllo dei dati e più specificamente dei reperti sonori estratti tramite la tecnologia ECHO, e sotto di essa un sottosuolo orientato all’aggiramento della regola, sospinto da esigenze di sopravvivenza in cui il denaro, come ammette la stessa Dorothea, muove il mondo. Potete esplicitare i diversi livelli di senso che intervengono nel film e il parallelo tra lo stesso e il mondo in cui viviamo oggi?  Una premessa: è difficile delineare parallelismi espliciti tra il mondo in cui viviamo e quello di Dorothea. Piuttosto, diversi pezzi di realtà, contemporanea e quotidiana, o esperienze storiche, hanno funzionato come innesco per processi narrativi che non hanno alcuna funzione allegorica, per così dire. Rispetto alla tua domanda, chiunque sia interessatə ad approfondire questi inneschi, può far riferimento alla serie podcast WHAT DO SOUNDS WANT? Scritta e prodotta da ALMARE e Radio Papesse e distribuita da NERO Editions, la serie costituisce il catalogo in formato audio del progetto. Il terzo episodio, Sound Artifacts and Lively Data, aiuta a comprendere il modo in cui Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. indaga il legame tra capitalismo dei dati, tecnologia e creazione di valore, riflettendo sull’uso degli artefatti archeologici, degli archivi e della memoria come strumenti di potere e controllo: cosa succede quando ogni cosa, ogni superficie e oggetto può registrarci? Quando siamo soggetti a una sorveglianza acustica pervasiva? Nella sinossi dell’episodio, scriviamo che “non si tratta esattamente di fantascienza al 100%. […]. La datafication dei nostri corpi è reale e influisce sulla formazione dell’identità e sul modo in cui gli individui percepiscono se stessi e gli altri attraverso la lente dei dati”. Jathan Sadowsky (When data is capital) scrive che “i dati sono più della mera conoscenza del mondo, sono bit discreti d’informazioni registrate digitalmente, elaborabili dalle macchine, facilmente agglomerabili e altamente mobili”. Sostiene che “i dati non sono là fuori in attesa di essere scoperti come se esistessero già nel mondo, come il petrolio grezzo. Inquadrare i dati come una risorsa naturale che è ovunque e libera di essere presa, rafforza i regimi di accumulo dei dati”. Questo genere di dinamiche sono state un innesco molto forte per pensare alle modalità di funzionamento di una tecnologia come ECHO e le conseguenze della sua implementazione a livello politico e sociale, i possibili effetti sulla psiche collettiva.

Durante l’ascolto di Life Chronicles, la SPU mi ha riportato all’esperienza della CCRU (Cybernetic Culture Research Unit), e in generale all’aura che circondava il circolo nato in seno all’Università di Warwick. Esiste un nesso tra questa realtà e il racconto?
Non c’è un collegamento diretto tra l’esperienza della CCRU e la S.P.U. o altri elementi del  nostro racconto. D’altro canto, molti pezzi di quella costellazione di stimoli che in maniera più o meno esplicita innervano il mondo di Life Chronicles sono debitori di quell’esperienza. Il collegamento più evidente è Steve Goodman, in arte Kode9, fondatore della storica label Hyperdub ed autore di Sonic Warfare, un testo che ha profondamente ispirato la scrittura di Life Chronicles – abbiamo inglobato diverse citazioni del libro nella sceneggiatura. Negli anni ‘90, Goodman ha frequentato l’Università di Warwick come PhD student ed era parte attiva del CCRU.

Un altro spunto di riflessione che per noi ha rilevanza centrale è la nozione di Sonic Fiction originariamente utilizzata da Kodwo Eshun in More Brilliant than the Sun. Chi di voi l’ha letto, sa bene che non stiamo parlando di un saggio convenzionale, ma un testo che richiede al lettore di accettare di perdere talvolta le coordinate, in un viaggio nei regni del free jazz e della musica elettronica nel quale incontriamo creature extraterrestri, saltando in maniera irregolare tra case studies, aneddoti e personaggi. Il professor Holger Schulze (professore ordinario di musicologia dell’Università di Copenaghen, coordinatore del Sound Studies Lab e autore di Sonic Fiction. The Study of Sound) lo definisce un Finnegan’s Wake nero, ricordando il linguaggio onirico e polisemico del romanzo di Joyce che venne a lungo considerato intraducibile. 


Eshun era uno dei principali animatori del CCRU, ed è lì che dobbiamo tornare per comprendere appieno l’accezione assunta dal termine “fiction”. Inizialmente la CCRU gravita attorno alle figure di Sadie Plant e Nick Land, conosciuto nome della teoria accelerazionista nonché tristemente noto per la nient’affatto felice parabola che lo ha portato a collocarsi tra le figure più emblematiche delle attuali correnti di pensiero neoreazionario. Schulze scrive che a Warwick, negli anni ’90, «la teoria veniva utilizzata come elemento accanto alla musica, all’arte e alla performance». Kodwo Eshun e Nick Land condividevano sicuramente l’idiosincrasia per le prassi accademiche convenzionali, dedicandosi ad una scrittura che invece fagogitava alcune caratteristiche della letteratura di fiction, parallelamente ad intensi rimandi ad un’esperienza sinestetica e corporea del mondo. Eshun e Land coniano entrambi una definizione per queste estensioni, potenziamenti, crescite steroidee delle prassi teoriche, giustapponendo generi diversi in due neologismi destinati a diventare uno strumento condiviso da molti. E infatti siamo qui a parlare di Sonic Fiction, il termine coniato da Eshun. Land parlava invece di Theory-Fiction. Nonostante anche Land ci abbia lasciato senza una vera e propria definizione, possiamo dire che “fiction” non deve farci pensare al romanzo, quanto piuttosto a strategie retoriche per stimolare l’immaginazione di chi si approccia allo studio di una teoria, per creare una finzione che sembri così reale e così presente da poter avere effetti diretti nella vita quotidiana, provocando le persone ad agire. Entrambi aggiungono, nelle parole di Steve Goodman, una “funzione psichedelica della teoria”.

Un lato che mi ha colpito particolarmente è quello della fascinazione feticista e sessuale che emerge dall’uso del suono nei personaggi che popolano la storia. Nell’ultimo film di Cronenberg, l’essere umano, ormai anestetizzato agli impulsi esterni, cerca nel dolore, nella sofferenza fisica un contatto con il corpo altrimenti sfuggente, che è anche piacere e godimento. Cosa manca o cosa si è perso nell’universo di Dorothea?
Penso tu ti riferisca a “Crimes of the Future” in cui l’umanità ha eradicato il dolore e la chirurgia si sostituisce alla sessualità. In questo film di Cronenberg, il piacere ha un aspetto performativo fondamentale che è forse assente in Life Chronicles. Il protagonista di “Crimes of the Future” è un artista che mette in scena le sue opere-operazioni grazie alle quali certamente prova piacere erotico ma è un piacere legato all’esibizione, alla dimostrazione di un dolore visto-vissuto come scandaloso (se non proibito). E difatti la società descritta nel film di Cronenberg, il “pubblico” delle performance, è stereotipicamente schizzinosa. Una sorta di anti-azionismo viennese in cui tutto è vero-verissimo, e l’arte è arte perché “vera”. Vero dolore, vero piacere. Niente sugo di pomodoro. Nel mondo di Life Chronicles invece, tutto è falso, bastardo, alterato, e il piacere erotico, farmacologico, dato dal riascolto dei sono-reperti (che nel nostro racconto sono chiamati “pargoli”), è dato anche da questa loro componente simulatoria. I pargoli sono reperti audio-ludici e si possono estrarre da qualunque oggetto nelle vicinanze di chi parla. La performance avviene a priori non a posteriori. Si è sempre ascoltati, tracciati, e in modo molto poco fedele. Questo alimenta un godimento che va a braccetto con la paranoia. In Life Chronicles, i personaggi sono ossessionati dal controllo e non vogliono perdere nulla. Tutto è trattenuto. In questo senso, puro in-trattenimento. Il piacere descritto da Dorothea è necromantico, si basa sulla riesumazione di un suono passato, possibilmente di tutti i suoni passati, riportati all’udito. L’obiettivo finale nel nostro film è infatti quello della perdita, dell’evasione, scardinare l’accumulo, celare, distruggere. Sono-clastia?

*Life Chronicles of Dorothea Ïesj S.P.U. è un film e audio-racconto sci-fi in tre episodi con sottotitoli video .Scritto e diretto da ALMARE, è curato da Radio Papesse, promosso in collaborazione con Timespan e realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito di Italian Council (2022), il programma di promozione internazionale dell’arte contemporanea italiana.