Valentina Bonomo sceglie di lasciare spazio a uno degli artisti che ormai da tempo milita nella retroguardia della Galleria romana. Dopo alcuni anni di gavetta altamente formativa, Valerio D’Angelo presenta per la prima volta ufficialmente la sua ricerca: un connubio di sperimentazione feroce e garbata accuratezza, sia sul piano teorico che pratico, disponibile per il pubblico fino al 30 marzo.
Sfavillante la serie di installazioni che D’Angelo sceglie accuratamente di posizionare nel white cube del ghetto ebraico: una sintesi di ricerche e applicazioni che da anni affollano la mente di un artista abituato ad ancorare saldamente le sue visioni alla produzione manuale. Un profondo senso di familiarità con la tecnica artigianale è parte integrante del suo codice genetico: l’artista infatti tempra per anni la sua abilità manuale nell’attività di restauratore. D’Angelo è un esploratore, un camminatore senza destriero che vuole sentire scorrere sotto le sue suole ogni passo che lo vede avanzare. Ogni tassello della sua seppur giovane ricerca si incastona nella sua cintura, determinandone una sempre più solida compattezza.
Il vetro riflettente e la pellicola dicroica sono strumenti con cui l’artista si muove con agilità. Attraverso la sperimentazione vengono avviati processi diversi, tutti indirizzabili verso lo stesso obiettivo: sfruttando la luce, l’artista eleva l’oggetto a modellatore dello spazio. Le opere vengono trasformate in dispositivi capaci di tagliare il cordone ombelicale che lo collegano al loro demiurgo. Too far for light to travel (2024) è la formula più esplicita di questo esercizio artistico: l’oggetto chiama lo spettatore, lo coinvolge attraendolo a sé. La luce agisce e l’ombra dell’avventore si ritrova a essere schiava della luce che l’opera emana, facendo continuamente evolvere lo spazio circostante. L’arte di D’Angelo ci osserva, non siamo noi a poterla esaminare. Ciò che ci circonda sembra immobile ma, pur rimanendo immateriale, gode di un’istantanea e autonoma capacità di plasmare e ricreare il contesto che lo circonda.
D’Angelo lavora sospeso. Non è però nel vuoto che sembra fluttuare, tutt’altro. Questo giovane artista viaggia in una specifica intersezione, quella che divide l’idea, nella sua più totale purezza, e il suo stadio evolutivo immediatamente successivo: la verbalizzazione. Valerio D’Angelo danza nella fase intermedia, dove tutto è ancora possibile e tutto può costantemente modificarsi.
La certezza è assente, la vera fonte del dominio è inrintracciabile. Pur agendo violentemente sui lavori presentati – si guardino le crepe e le bruciature evidenti sui corpi dei Senza Titolo (2024) – D’Angelo propone una formula di degenerazione generativa: un’azione capace di far sorgere un nuovo mondo, uno scenario inedito che dalla superficie consumata va manifestandosi, lasciandoci solo immaginare quale definitiva forma potrà acquisire. Il nero intenso di questi segni lasciati sulla pellicola fa scivolare lo spettatore nel buio. Ed il buio stesso a rievocare il riverbero di un’eco silenziosa, un abbraccio intimo che avvolge il globo con il suo mistero insondabile.
Quel buio è la tela su cui dipingere emozioni nascoste, un regno di promesse e paure, dove l’anima si avventura per scoprire la sua vera natura.
Nel buio si nascondono i segreti più profondi, le verità più intime e i sogni più selvaggi, pronti a danzare nell’oscurità come fiamme luminose.
Massimizzare ogni potenzialità è la strada che potrebbe condurci – la certezza è estranea come già detto – verso uno dei tanti mutevoli obiettivi che di volta in volta sorgono e tramontano nelle nostre quotidianità. Se niente è perpetuo, rincorrere qualunque traguardo quale ragione avrebbe? La soluzione a questo enigma che ci inducono a proporre le visioni di Valerio D’Angelo è che l’unico modo di cambiare il mondo è modificare il modo in cui siamo soliti osservarlo.
Valerio D’Angelo, Too Far for Light to Travel
Galleria Valentina Bonomo
fino al 30 marzo 2024
Via del Portico d’Ottavia 13, Roma
Info: galleriabonomo.com