Quella di Claire Fontaine è una pratica radicale, volta alla rivendicazione di uno spazio di resistenza condiviso, uno strumento per allenarsi alla crisi, sfuggire alla gabbia delle classi sociali e alla rigidità del pensiero. Sul sito si trovano dei messaggi che aspettano il passaggio del visitatore per essere attivati. «Spesso la storia di cui abbiamo bisogno è quella meno raccontata»: la nuova potenza del femminismo, la lotta al patriarcato e al potere costituito, la critica al concetto di autorialità singolare sono i campi di combattimento su cui si innesta il lavoro artistico del duo.
Al visitatore si dichiara che il vostro lavoro, come la vita, è un esperimento. Di che tipo di esperimento si tratta?
Ci sono diversi cantieri aperti nella nostra pratica: uno è quello della crisi della funzione autore, cui rispondiamo con un’autorialità condivisa, ma anche dando voce a parti diverse di noi – usando la desoggettivazione – per risuonare il più intensamente possibile con il nostro lavoro. Un altro è quello del nodo identità/proprietà: cosa ci sembra culturalmente appropriato o inappropriato? che cos’è l’appropriazione culturale o intellettuale? in che modo viviamo nel nostro paese e nel nostro contesto come stranieri? la provenienza è un’appartenenza? Molto legato a questo nodo è quello del femminismo che – come sempre diciamo – è un’etica, una politica e una pratica, allo stesso tempo, un modo di vivere che onora la riproduzione della libertà e diffida dei poteri costituiti, una posizione eccentrica che fa dell’esteriorità relativa alla società una risorsa per inventare altri universi possibili. Ci sarebbero poi tanti altri fili rossi che tessiamo e tiriamo da quasi due decenni.
La rimediazione dei contenuti sembra essere la pratica di produzione contemporanea per eccellenza, un ready-made alla portata di tutti. È questa la mossa definitiva per eliminare la mitologia del genio e creare uno spazio libero, desoggettivato?
Il ready-made non è il risultato di un’azione arbitraria, né un cinico capriccio, è un processo che si innesca grazie a una fine sensibilità, come lo è la pratica del reframing. È necessaria molta più cura per riutilizzare un’opera esistente in modo rilevante di quanta ne serva per creare qualcosa di “nuovo” che sembri esteticamente interessante. La riattivazione di contenuti potenziali in forme esistenti richiede la sensibilità al possibile sopito, all’infrasottile. Si è confuso nella storia dell’arte e nella cultura in genere, il genio con l’esibizionismo del maschio alfa del patriarcato e il pubblico con la massa passiva dei suoi ammiratori incapaci; il mito dell’artista è stato a lungo basato sul presupposto della castrazione creativa della maggioranza. Oggi questo non è più vero: chi vuole essere creativo può farlo e internet ha reso tutti più competenti.
In un’epoca in cui il progresso industriale si è rivelato insostenibile per il pianeta, il ritorno a un contatto più diretto con la natura, come teorizzato dal materialismo magico, sembra poter offrire la soluzione per arrestare il disastro. La magia uccide davvero l’industria?
Questa citazione di Bacone riattivata da Silvia Federici illustra bene il conflitto tra le culture contadine e artigiane, legate ai cicli vitali e naturali, e la temporalità astratta industriale e post-industriale, che prevede invece una produttività continua. L’aggettivo “magico” è stato usato da noi come contrappunto di “storico” per creare un’altra definizione del materialismo: tutto è culturale, sia l’esperienza del nostro corpo, delle sue funzioni vitali, sia quella che abbiamo della storia stessa. Per dire che tutto è storico-sociale nel 2023, quando il pianeta è messo in pericolo dalla civiltà che tramite la storia si racconta come progresso, dobbiamo usare termini che non vengano da matrici coloniali o patriarcali, la magia delle streghe ci interessa a questo proposito. Tutti e tutte sappiamo che il nostro sapere deve cambiare e che dobbiamo comprendere la nostra salute e il nostro ambiente tramite nuove categorie. L’industria non è solo quella degli oggetti e dell’estrazione delle risorse, è anche quella della produzione delle soggettività e delle immagini del mondo.
Avete vinto quest’anno il Premio della Fondazione Ermanno Casoli, che vi vedrà lavorare con le donne dell’azienda Elica, a Fabriano. Per le donne accedere al lavoro produttivo senza lo spettro del lavoro di cura è ancora oggi utopistico. Cosa è venuto fuori dai primi workshop e come si svilupperà l’opera?
L’opera che installeremo a settembre nei locali di Elica sarà ampiamente indebitata con l’esperienza del workshop, ancora però non possiamo rivelare in che modo. Il presupposto di partenza era che il lavoro di cura non è una schiavitù da delegare a persone sottopagate, ma è una pratica continua che accompagna la vita: la cura di sé, degli altri, della comunità, del lavoro che svolgiamo, non dovrebbero essere mutualmente esclusive, eppure lo sono, e le tragiche conseguenze di questa situazione sono sotto gli occhi di tutti. Non è la cura di chi si ama che va sacrificata per il lavoro, cosa che invece sempre accade, è il lavoro che deve servire alla società e servire la società, aiutando uomini, donne, bambini e altri esseri viventi a svilupparsi come creature capaci di amore, di libertà e di produttività. Questo le donne lo sanno ma non sempre hanno l’opportunità di dirlo apertamente.
Lo sciopero umano sarà uno sciopero femminista?
Questo è certo: è il femminismo che ci ha permesso di comprendere che il lavoro remunerato non sarebbe possibile senza il lavoro gratuito o sottopagato fatto da donne e migranti, che lo sfruttamento contiene un altro livello segreto di estrazione e mutilazione della vita. È questo nesso tra le diverse produttività che sarà essenziale per far comprendere che il disoccupato, l’emarginato, l’anziano, il diversamente abile, il bambino e l’albero fanno tutti parte dello stesso sistema e non sono meno importanti del manager o del presidente. Le donne hanno scioperato dentro e fuori dalle strutture ufficialmente produttive della società, hanno lottato per cambiare se stesse e la loro immagine, è per questo che costituiscono il modello delle rivolte a venire.
La collaborazione con Dior è nata molto prima di Sanremo 2023. È vero, non esiste un contesto “buono” per esporre opere d’arte, ma com’è stato allestire un set di quel tipo rispetto agli spazi tipici dell’arte?
Siamo rimasti sorpresi dalla quantità di aspetti in comune che esistono tra il mondo della moda e quello dell’arte, in particolare nel momento dell’esposizione. Avevamo totale libertà, l’unica limitazione era di dover lasciare libero lo spazio per la passerella. Abbiamo usato il contesto creando un contrasto dialettico tra l’assenza di gravità dei corpi delle modelle e dei loro vestiti e la pesantezza sospesa delle parole sopra le loro teste. Le parole erano anche sotto i loro piedi, quelle dei giornali e dell’attualità bruciante del Covid erano sul Newsfloor composto da pagine del quotidiano “Le Monde”. Le sfilate sono molto silenziose, le modelle non hanno la parola.
Il corpo, e in particolare quello femminile, resta ancora il luogo della possibilità rivoluzionaria.
Sì, ora più che mai, dato che i diritti riproduttivi sono in pericolo anche in Italia e che tanti esseri migrano apertamente da un genere all’altro. La femminilità è ora implicata in avventure diverse, laddove prima poteva esistere solo clandestinamente, in modo disdicevole, proprio come la libertà delle femministe che è sempre stata bollata ai suoi albori come indecente. Sfatare il mito della bellezza libererà anche gli uomini eterosessuali, che non si avvantaggiano di un’attrazione sessuale basata sulla sottomissione e l’oggettivazione dell’altra. Eppure, la nostra cultura è stata costruita su stereotipi che continuano a produrre questa situazione col suo corollario di femminicidi e violenze.
In Foreigners Everywhere viene esplicitato anche formalmente il problema della traduzione che mina l’inclusività del messaggio. Qual è la strategia di resistenza da mettere in campo, per capirsi e farsi capire?
L’arte non è di certo la forma di comunicazione più scevra da ambiguità e malintesi, né la più adatta a trasmettere un messaggio politico (quella è la propaganda). Claire Fontaine ha anche una produzione testuale in cui, se interessasse a qualcuno, le nostre posizioni sono più leggibili. La violenza della traduzione – abbordata nella serie Foreigners Everywhere – parla dell’illeggibile come paradigma, delle cose e delle parole che non comprendiamo ma ci riguardano. Ci sono stranieri ovunque andiamo e siamo stranieri noi stessi ovunque andiamo, la cultura dominante non può e non deve essere l’unica casa simbolica per nessuno.
Emmanuele Carrère in Vite che non sono la mia, abilita ogni percorso di esistenza sotto la lente della letteratura. Noi d’altra parte lo facciamo quotidianamente nel nostro personale storytelling sui social. In un vostro testo affermate che “siamo tutti singolarità qualunque”, ma qual è il senso?
Questo concetto viene da La comunità che viene di Giorgio Agamben, un libro che ha insistito sul fatto che non c’è un dovere morale da assolvere nella vita umana, che non abbiamo un compito da portare a termine, in compenso siamo sempre in una zona liminare tra il bene e il male e solo la politica permette di trovare criteri per orientarci nelle nostre azioni e dare una forma alle nostre vite. Agamben non lo spiega esplicitamente ma noi crediamo che questo concetto sia stato ispirato dall’idea di Gilles Deleuze che nei suoi libri sul cinema descrive l’istante qualunque come quello che, montato con altri istanti dello stesso tipo, permette di tessere un’esperienza della vita che non è edificante. È esattamente l’opposto del modo in cui la maggioranza delle persone usa i social. I social sono usati per aggiungere valore a ciascuno di noi, su instagram e su facebook siamo tutti singolarità economiche.
In uno dei vostri più famosi neon si legge “Capitalism Kills Love”. Cosa c’entra l’amore in tutto questo?
Il capitalismo, lo spiega bene bell hooks in Tutto sull’amore, confonde la gratificazione dei bisogni materiali indotti con l’amore. Non esiste nella nostra cultura un insegnamento su cosa sia l’amore, come coltivarlo, come superarne le molteplici difficoltà, come distinguerne le diverse forme. Più incompetenti siamo dal punto di vista emotivo, più consumiamo per compensare le nostre frustrazioni.
“Pensati libera”. Alla fine, la libertà è davvero terapeutica?
La libertà nel suo aspetto politico, e quindi collettivo, è l’unica cosa che renda la vita degna di essere vissuta. Ci vogliono le possibilità emotive ed economiche di rifiutare condizioni di asservimento per tutti e tutte, senza queste la vita è un pendolo tra l’umiliazione e il ricatto. Non c’è altro da aggiungere.
BIOGRAFIA
Claire Fontaine si definisce un’artista collettiva fondata da James Thornhill e Fulvia Carnevale nel 2004 a Parigi. Il suo nome è uno pseudonimo che suona come il nome proprio di una donna francese, ispirato all’orinatoio di Duchamp (Fontaine) e a una nota marca di cancelleria francese (Clairefontaine, appunto), volendo deliberatamente creare l’equivoco, non associando direttamente le loro biografie alle opere, in modo da poter trasformare il lavoro in uno spazio di libertà.
L’uso della citazione è legato alla stessa intenzione: non focalizzarsi sul genio individuale e l’eccellenza dei singoli ma ricercare l’attivazione delle forze e delle forme presenti nella storia dell’arte, sottolineandone il contenuto politico. Claire Fontaine utilizza vari medium – dal video alla scultura, il neon soprattutto – e rifiuta l’obbligo della riconoscibilità formale nel suo lavoro, che invece considera come una ricerca sperimentale in progress, un’esplorazione continua. Dal 2017 vive e lavora a Palermo.