La cultura del controllo, il controllo della cultura. Il potere delle immagini nell’era berlusconiana

L'esperienza che ha travolto la storia del Bel paese, ripercorriamo le tappe che hanno cambiato la comunicazione e l'iconografia dell'Italia

L’esperienza di Silvio Berlusconi stravolge radicalmente non solo la storia politica del Bel paese. All’inizio degli anni ’90, le traiettorie culturali italiane subiscono una virata che in molti oggi faticano a definire inaspettata: sulla potenza della televisione Berlusconi basa fin dall’inizio il suo sistema di potere, composto in segmenti minori anche nell’universo dell’edilizia, e proprio sulla propaganda televisiva viene fondato il suo ingresso in politica. Per Giovanni Gozzini (L’Italia di Berlusconi come problema storiografico, Italia Contemporanea) la neotelevisione è l’espressione culturale della «rivoluzione individualista» della generazione del baby boom, volta a cercare la felicità nell’esperienza privata del consumo. Berlusconi diventa in breve tempo il legittimo rappresentante di questa nuova esigenza materialista, stadio più aggiornato, alla fine del millennio, dello sviluppo del sistema capitalista. 

L’intervento nella storia d’Italia di un uomo come Silvio Berlusconi ha lasciato solchi profondi che oggi più che mai possiamo osservare da vicino. Le conseguenze di un ventennio di governo, se pur frammentato, sono adesso più evidenti che mai. L’epoca storica che ha guardato il Cavaliere e che da esso è stata in parte modellata si chiude con un funerale spettacolare, un omaggio ai tanti sostenitori che lo hanno amato, nonostante tutto. Un addio che sintetizza, in una volta sola, le tante esistenze e ramificazioni di un uomo di potere che ha innescato processi culturali bidirezionali, avviato regressioni civili e tentato la modernizzazione di un paese sempre diviso a metà.

Repetita Iuvant, l’arte oratoria Berlusconiana

La televisione si fa, nel ventennio berlusconiano, ufficiale strumento educativo e di interlocuzione, si dimostra in grado di influire sulle condizioni dei comportamenti e delle scelte politiche, incluse le «tradizioni», il senso di appartenenza, i desideri e gli obiettivi esistenziali. L’Italia di fine millennio è un paese che si muove in una profonda crisi sistemica dovuta al crollo della cosiddetta «Prima Repubblica»: il terremoto politico-giudiziario di Mani Pulite determinò il definitivo collasso dei partiti di governo, provocando un vuoto politico nell’area moderata. La fine dell’era delle ideologie si presenta come il territorio più fertile per la fioritura di un pensiero edonista, perfettamente appagato e soprattutto giustificato da una narrazione berlusconiana che basa il suo successo proprio sull’abbattimento dei tabù morali tramandati dall’ormai defunto strapotere del partito della DC.

È innegabile che il mondo della comunicazione ha conosciuto un periodo pre e uno post Berlusconi. Il Cavaliere infatti, assolutamente a suo agio di fronte la telecamera, cavalca con il sostegno popolare attraverso, soprattutto all’inizio degli anni ’90, una retorica nuovista. L’uomo del domani sottolinea con ogni respiro la sua distanza con la prima Repubblica. Non sono solo gli argomenti a cambiare, la grande rivoluzione avviene con un linguaggio semplificato, in cui la ripetizione è l’arma più tagliente ed efficace nella penetrazione delle idee nelle platee elettorali. I messaggi del Cavaliere divengono degli slogan adatti a scandire in modo persuasivo i concetti-base del discorso. Sono ormai noti i riferimenti culturali dell’uomo di Arcore: non rinuncia all’impiego di molti termini e modi di dire legati alla religione cattolica. Una delle figure retoriche che maggiormente usa il Cavaliere è l’ironia. Il riso accorcia le distanze, crea empatia, fiducia, la bandana suggerisce informalità ed è per questo che non stupiscono le sue barzellette, che non danno fastidio le sue gaffe, come quando ha detto che Obama è “abbronzato”, quando fa le corna al ministro degli Esteri spagnolo Josep Piqué al vertice di Caceres o, ancora, quando si toglie la scarpa per mostrare che non porta i tacchi contrariamente a quanto si pensi.

La cultura del controllo, il controllo della cultura 

Con la scesa in politica di Silvio Berlusconi vengo innescate reazioni differenti in tutto il paese, ma tutte connotate da sentimenti estremi da un lato e dall’altro: le famiglie italiane si trovano immerse in un mare di novità che appassionano, quanto preoccupano. Un’entusiasmo legato al desiderio di rinnovamento e un risentimento che si annida sopratutto nella fetta elettorale progressista, all’epoca sotto la guida di Achille Occhetto, sono contemporaneamente propulsori di grandi energie, se pur opposte. E proprio come Occhetto incarnava il prototipo del contestatore intellettuale che, con sciarpa rossa al collo e la copia del quotidiano “L’Unità” che spunta dalla tasca posteriore dei pantaloni, scuote la testa di fronte allo “scempio liberista” attuato da Berlusconi e i suoi tentacoli mediatici, il Cavaliere rappresentava per l’altra fazione l’uomo nuovo. 

L’Italia cambia con Berlusconi e Berlusconi allo stesso tempo cambia di anno in anno l’Italia: Il volto dell’imprenditore e politico entra ufficialmente nella mitologia. La storia personale del Cavaliere, uomo venuto dal nulla, capace di forgiare autonomamente il suo destino, l’incarnazione nostrana del sogno americano, sovrasta ogni altra narrazione. Ed è proprio agli Stati Uniti che fa riferimento un modus operandi diretto alla distruzione del modello culturale tradizionale italiano: l’attacco al monopolio Rai con l’avvento delle televisioni private ne è la prova più esplicita ma anche verso altro Berlusconi volge il suo sguardo. Sono i settori che si dimostrano capaci di modificare il costume dei cittadini della Penisola che necessitano di una direzione uniforme: poco per volta Berlusconi assimila fra le sue proprietà un po’ di tutto, grandi case editrici come Mondadori, Einaudi, Sperling & Kupfer, una quota de “Il Giornale” diretto da Indro Montanelli, il controllo di Medusa Film e della catena di videonoleggio Blockbuster Italia. Gli storici Guido Crainz e Antonio Gibelli sono d’accordo nel definire questo sistema “totalitarismo pubblicitario”.

In quegli anni, un nuovo modello culturale si è affacciato e non ha avuto rivali: il paese azienda, meno tasse, più libertà contro l’incubo della sinistra che nella sua ascesa vedeva solo la distruzione di ogni perbenismo culturale e valoriale. Propulsore fondamentale all’idealizzazione del nuovo profeta liberale è stato senza dubbio il profondo senso di odio che i detrattori di Berlusconi non hanno perso occasione per manifestare. Un malessere sinistroide che non viene mai censurato, ma anzi, il Cavaliere cavalca, offrendo spazio, risorse e visibilità proprio a quei contestatori che, parlandone ripetutamente, ne facevano rafforzare l’idea di un martire futurista ostacolato dal tradizionalismo antiliberale.

L’arcitaliano, l’iconografia berlusconiana 

Berlusconi è, a colpa o a ragione sta a voi deciderlo, l’omicida dei padri: la cancellazione della memoria dei fondatori della Repubblica e la rimozione delle abitudini ossequiose nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni portano alla sostituzione di queste con un nuovo pantheon fatto di celebrità e personaggi discutibili. Le nefandezze della politica sono una malattia a cui il popolo italiano elabora una resistenza senza precedenti. 

Il marketing e il sondaggio, armi potenti che la politica berlusconiana mette in gioco, diventano parametri indispensabili per saggiare la fiducia del popolo: un sostengo che diventa baluardo di libertà perché proprio su quel consenso popolare si basa l’efficacia di una gestione del potere accentrata e unidirezionale, non solo garantita dall’altezza degli organi di stato costituzionalmente riconosciuti come veri garanti della democrazia. L’uomo solo al comando che guida appassionatamente la terra che ama come fosse una delle sue imprese forgia un nuovo modello sociale: l’autorità si fonda sul successo personale, la credibilità sul denaro. Ancora l’individualismo, protagonista imbattuto del nuovo ventaglio valoriale italiano.

La grande affezione che l’elettorato più volte gli dimostra non può che essere anche il risultato di una figura pubblica capace di mettere sempre di fronte agli occhi di tutti la sua frazione più umana. L’attaccamento al personaggio che più di tutti è stato in gradi di personificare l’immaginario dell’italiano medio, legittimandone i paradossi, è dovuto anche alla sua capacità di gettarsi in pasto al pubblico, rendendo la sua stessa carne, alimento elettorale. 

La potenza comunicativa berlusconiana è però basata su, più di ogni altra cosa, il riconoscimento dell’immagine come strumento ancor più efficace della parola. Un uso dell’icona personale come quello di Silvio Berlusconi trova un solo paragone storico: Benito Musssolini. Non è un caso che nella campagna elettorale del 2001, tra le varie trovate ci sia quella di pubblicare un rotocalco, molto simile alla rivista “Chi”, distribuito in milioni di copie, ricco di immagini commentate da brevi didascalie. Berlusconi fornisce così una versione pubblica della propria intimità, anticipando di oltre un decennio i social network più diffusi, Instagram in particolare – una passione che lo ha accompagnato fino all’ultimo: basti osservare il recentissimo sbarco del Cavaliere su Tik Tok – corrompendo definitivamente l’immaginario austero e istituzionale della vecchia classe politica. Non è possibile infatti dimenticare le passeggiate sulla spiaggia di Terracina di Aldo Moro in abito elegante con la piccola figlia Agnese: un uomo politico all’epoca non poteva mai uscire dal suo ruolo. 

Un domani mai arrivato

Il domani sognato dal Cavaliere ha preso corpo, si è insinuato in maniera trans-generazionale attraverso ogni pertugio: dai Baby Boomer, alla generazione X, ai Millennials la parabola berlusconiana ha viaggiato senza mai smettere di essere dirompente. Oggi osserviamo un mondo polarizzato, conscio della sua fragilità, meno sognatore di quello che era un ventennio a questa parte. La presa di coscienza del conto alla rovescia che ci riguarda uno a uno, ci ha portato alla riemersione di linguaggi estremisti, tutt’altro che scanzonati come invece era il vocabolario ironico e non raramente scurrile di Silvio Berlusconi. 

La fine di un’era è arrivata in maniera definitiva: viviamo una storia in cui il miracolo italiano è morto insieme al suo profeta d’eccezione. Il verbo della libertà berlusconiana si spegne con il suo creatore, genio dell’informazione, pessimo pedagogo, geloso e narcisista accentratore di un potere che, all’apparenza, non lo ha mai appagato abbastanza. L’Italia non è più la stessa, sono cieli scuri quelli che osserviamo all’orizzonte, non meno minacciosi di quelli che abbiamo osservato nel recente passato, la vera differenza è che oggi abbiamo il dovere di dimostrarci migliori, più “alti”, e non ci sarà scarpa col tacco che nasconderà la nostra eventuale bassezza.

Bibliografia:

– Crainz G., Il paese reale. Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi, Donzelli, Roma 2012.
– Ginzborg, P., Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica, Einaudi, Torino 2003.
– Amato G., Graziosi A., Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia, Il Mulino, Bologna 2013.
– Ginzborg, P., Berlusconi in prospettiva storica comparata, in Santomassimo G, (a cura di), La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi, Il Saggiatore, Milano 2003.