Nel 1980 nasceva, per la prima volta, la Biennale di Architettura sotto la direzione stellare di Paolo Portoghesi, primissimo curatore della Mostra Internazionale a tema della Biennale, e tristemente compianto da appena qualche giorno. Ad oggi, l’obiettivo dell’ideazione di un nuovo ambito disciplinare nato dall’ampliamento del settore Arti Visive già nel 1975, per confermare definitivamente l’interdisciplinarietà tipica dell’istituzione veneziana, è totalmente confermato: un’immagine ce la restituisce The Laboratory of the Future, la 18esima Mostra Internazionale di Architettura a cura di Lesley Lokko, in cui il confine tra architettura, performatività e arti visive è labile. Promuovendo ormai da tempo un modello più sostenibile per la progettazione, l’allestimento e lo svolgimento di tutte le sue attività, la 18esima Biennale Architettura, punta in primis a una grande e inevitabile opera di sensibilizzazione verso il pubblico, mediante temi fondanti quali la decolonizzazione e decarbonizzazione, ma anche un attivismo sociale e architettonico coniugato con l’immaginazione di spazi socialmente fluidi e volutamente “disordinati”, verrebbe da dire, sulla scorta di Designing disorder. Experiments and distruptions in the city scritto a quattro mani dal sociologo Richard Sennett e dall’architetto attivista Pablo Sendra e solo recentemente tradotto da Treccani (Progettare il disordine, 2022).


Al centro di The Laboratory of the Future c’è ovviamente l’immaginazione declinata in tutte le forme e il suo enorme potenziale. Non a caso la stessa Lokko dichiara: «Al cuore di ogni progetto c’è lo strumento principe e decisivo: l’immaginazione. È impossibile costruire un mondo migliore se prima non lo si immagina». E infatti in tutte e sei le sue parti, con 89 partecipanti – di cui oltre la metà provenienti dall’Africa o dalla diaspora africana, elemento di incredibile novità – emerge tutta la portata immaginativa dell’Esposizione, volta alla concezione di un’architettura come spazio catalizzatore e riunificatore di individualità, ma potentissimo strumento sociale in grado di creare connessioni variegate e plurime oltre la fisicità del luogo. Lo si vede bene nella sezione Progetti Speciali della Curatrice dove anche l’età giovanissima dei partecipanti (il più giovane ha 24 anni) ci restituisce il quadro concreto di un futuro anti onirico e immaginabile a partire dalle possibilità pensate dalle singolarità: «Per la prima volta in assoluto – dichiara Lesley Lokko – quasi la metà dei partecipanti proviene da studi a conduzione individuale o composti da un massimo di cinque persone. In tutte le sezioni della Mostra, oltre il 70% delle opere esposte è stato progettato da studi gestiti da un singolo o da un team molto ristretto». L’individualità si combina inoltre con il tema della fluidità e dell’ibridazione, altro cardine su cui la Biennale non poteva non puntare. Nasce a proposito, sia nel complesso dell’Arsenale che nei Progetti Speciali, un nuovo termine per qualificare i partecipanti, “practitioner”, né architetti, né urbanisti, né designer, né ingegneri, né accademici, ma “praticanti” che si esercitano abilmente e con ottimi risultati a quanto pare, nell’immaginazione di un futuro sotto il riflettore di condizioni umane estremamente complesse, specialmente se riferite all’Africa, ma al mondo contemporaneo stesso, allucinato da cambiamenti repentini di ogni genere, quelli climatici e ambientali in cima alla lista.

«Quest’anno più che mai, l’identità della Biennale Architettura sembra trovare radici nella struttura e nel formato della mostra d’arte, aggiungendo a quest’ultima la concretezza di questioni legate alla produzione, alle risorse e alla rappresentazione che sono centrali nel modo in cui una mostra di architettura viene al mondo, eppure vengono riconosciute e discusse di rado», afferma la curatrice . Un esempio per tutti è il progetto esposto alle Corderie nell’ambito di Dangerous Laisons e intitolato Killing Architects – Investigating Xinjiang’s Network of Detention Camps ideato da Alison Killing, architetto britannico, con il supporto di un giornalista, Megha Rajagopalan, e uno sviluppatore di software, Christo Buschek, e valso al gruppo il Premio Pulitzer come reportage internazionale nel 2021. Il progetto è un’indagine accurata intorno alla rete segreta di campi di detenzione e prigioni nella regione dello Xinjiang in Cina, nel quale si calcolano oltre 1 milione di minoranze musulmane imprigionate dalla fine del 2016 (insieme a kazaki, uzbechi, kirghisi, hui, mongoli, xibe e altre popolazioni indigene della regione) nell’ambito di un presunto “benevolo programma di rieducazione” contro l’estremismo, secondo quanto affermato dal governo cinese. Nel 2018, quando è iniziata l’indagine, poco si sapeva della rete dei campi o dei luoghi in cui le persone erano scomparse. L’installazione video racconta la ricerca a partire dal suo inizio, nel 2018, quando di 1 milione di persone detenute, ne erano state trovate solo poche dozzine. Il risultato dell’unione delle forze dei tre autori del progetto è a dir poco sorprendente: tramite l’intensa attività di ricerca a tappeto, l’individuazione dei complessi architettonici dei campi rinvenuta per mezzo di confronti quasi iconografici su mappe e risorse digitali e non, unita ad un arduo lavoro di immaginazione – rivelatasi in tutta la sua concretezza reale, è il caso di dirlo! – il gruppo è riuscito a ricostruire una completa localizzazione delle aree detenzione, dei suoi spazi esterni e interni, e ad unirla con quella delle testimonianze di alcuni ex detenuti. Molte di queste descrivono di essere state portate via nel cuore della notte incappucciate e in catene, in terrificanti prigioni in luoghi sconosciuti, resi ora noti. Il valore e il senso che la ricerca assume in Killing Architects, uniti a un’immaginazione disincantata strumento per la creazione di un futuro migliore, fa effettivamente della 18esima Biennale di Architettura, una palestra e un laboratorio di sperimentazione.



È per certi versi incentrato sul parallelismo arte visiva-architettura anche il Padiglione Germania, Open for Maintenance, a cura di ARCH+ / SUMMACUMFEMMER / BÜRO JULIANE GREB, quest’anno dedicato ai temi della cura, della riparazione e della manutenzione con il partenariato del Goethe-Institut che nell’ambito di Performing Architecture 2023, è stato protagonista degli eventi di inaugurazione del padiglione il 19 e 20 maggio. Performing Architecture nasce già nel 2014 – da allora numerosi artisti di fama internazionale hanno partecipato al progetto, come Florian Malzacher, Meg Stuart, Rimini Protokoll, Sandra Oehy, Sasha Waltz e William Forsythe – con l’obiettivo di esplorare, nel contesto della Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, la dimensione performativa dell’architettura, le sue intersezioni con la coreografia e le arti performative. Una nuova concezione di architettura fluida e comunicante che interagisce attivamente con i suoi abitanti, a partire proprio dall’interazione con le altre arti, evidenziando così tutta la propria influenza sociale e politica. Il collegamento con The Laboratory of the Future è diretto: il programma di Performing Architecture affronta sfide sociali urgenti come l’inclusione e punta mediante le iniziative organizzate a far emergere un coro di voci solitamente nascoste o costrette a tacere. Tema centrale a proposito, quello del lavoro, approfondito dal collettivo Art For UBI, con Marco Baravalle, Emanuele Braga, Gabriella Riccio (Institute of Radical Imagination) e Anna Rispoli, in collaborazione con Sale Docks. Altro nodo centrale è costituito dalla coreografia site-specific pensata per il padiglione, curata dal coreografo Alessandro Schiattarella per la Forward Dance Company di Lipsia (Lofft – das Theater) con interpreti dalle fisicità normative e non. Sulle sponde è una performance nata dall’adattamento dello spettacolo Sulle sponde del lago – Am Ufer des Sees – ispirato al celebre Lago dei cigni di Čajkovskij. Lo spettacolo, pensato appositamente per il padiglione tedesco il cui ingresso costituito da una grande rampa, favorisce volutamente i non dotati di fisicità e abilità motorie normative, cerca il dialogo con l’architettura dell’edificio, apre lo spazio alla consapevolezza e alla cura, al rinnovamento e alla sorpresa, alla rivalutazione della fragilità di contro alla presunta perfezione. La “normalità della norma” esce sconfitta e modifica dallo spettacolo che smonta dunque ogni canone prestabilito e riassembla in modo sovversivo il balletto classico in una modalità totalmente inclusiva che si aggiunge alla lunga genealogia di produzioni del noto balletto.



L’altra performance che ha inaugurato il padiglione tedesco, realizzata nello specifico dal collettivo Art For Ubi, nasce da un progetto partito nel 2021 con un Manifesto in cui il mondo dell’arte si posiziona a favore del reddito di base universale e incondizionato (UBI). Definita dallo stesso collettivo un’“inchiesta performativa” sulle condizioni del lavoro culturale a Venezia, Biennalocene. Se’l mare fosse de tocio è un dibattito che prende le mosse da una serie di interviste a un gruppo di lavoratrici e lavoratori delle industrie culturali veneziane. In un coro inscenato con estrema naturalezza, gli intervistati stessi hanno dato voce e portato in scena le loro personali considerazioni sulla precarietà professionale che li contraddistingue e sulla fatica esistenziale che ne deriva: la casa, il reddito e il futuro della città lagunare alla prova del riscaldamento globale. Il risultato è un dialogo in cui ogni singolarità trova posto in una condizione di disagio comune ben argomentato e su cui ci si interroga solo a partire dall’esperienza personale. A turno ogni partecipante ha dato sfogo ad una voce collettiva: Davide ad esempio (nome fittizio) ha 29 anni, la sua vita è un insieme bilanciato di “ansia e studio costanti”, dice, una rincorsa tra “la speranza di vincere un dottorato e la scrittura di un articolo di filosofia o di arte contemporanea”. L’efficacia del racconto è più che mai evidente e tra gli spettatori imperversa un sentimento di condivisione ai limiti della fratellanza, palesato da sguardi di accondiscendenza totale alle testimonianze dei partecipanti che si confondono quasi con il pubblico: tutti lavoratori culturali e tutti accomunati dallo stesso male, quello di pretendere di vivere di cultura.