Stanislao Lepri. Da Tommaso Calabro le fantasie e le visioni del “diplomatico che dipinge”

In seguito alla prima monografica newyorkese, l’elegante spazio in piazza Sansepolcro prosegue nella sua operazione di recupero storico di uno dei grandi sconosciuti del panorama surrealista italiano

Nel catalogo della mostra Twentieth-century Italian Art, allestita al MoMA di New York nel 1949, e nello specifico nella sezione dedicata ai pittori fantastici (The fantasts), la menzione fatta a Stanislao Lepri (1905-1980) è frettolosa e sbrigativa: presentato come “l’unico discepolo diretto” di Leonor Fini, al “diplomatico che dipinge” – così venne definito, solo un anno prima, dal critico Raffaele Carrieri sul “Tempo” – non è accordato neanche un minimo margine d’autonomia, e della sua produzione si parla come una semplice filiazione del linguaggio della ben più nota pittrice italo-argentina. Nonostante il tempo sia stato con lui più clemente, consentendogli di guadagnarsi una maggiore fortuna critica – “Scuola di Leonor, dunque, e unicamente? Troppo facile a dirsi” (Irene Brin) – e l’attenzione di studiosi come Mario Praz o Alain Jouffroy, Lepri rimane ancora, e con rammarico, uno dei grandi sconosciuti dell’arte italiana del secolo scorso, un autore che proprio Jouffroy, nel catalogo di una mostra alla Galleria Galatea di Torino, aveva definito “più isolato in mezzo al mondo di quanto non lo sia la maggior parte dei pittori contemporanei”. 

Stanislao Lepri, installation view © Riccardo Gasperoni

Mostre come quelle allestite da Tommaso Calabro a Milano sono dunque preziose, avendo il merito di offrire agli studiosi, ma anche agli appassionati o ancora al pubblico dei profani, le visioni fantastiche che dal 1942 – anno in cui, console italiano a Montecarlo, incontra la Fini legandosi a lei per la vita – fino al momento della dipartita, popolano i suoi quadri. Inaugurata lo scorso 11 aprile, e aperta fino al prossimo 24 giugno, la personale su Stanislao Lepri, che segue l’approfondimento monografico dedicato al pittore romano – discendente dalla “nobiltà nera” dei marchesi Lepri – in occasione della fiera Independent 20th Century di New York (settembre 2022), presenta più di quaranta opere, tra tele e disegni su carta che, nel piccolo e medio formato, restituiscono in tutta la loro enigmatica schiettezza gli ultramondi metafisici emersi dalle regioni più profonde dell’inconscio del pittore, territori psichici di confluenza di elementi visivi appartenenti alla biografia del pittore – “episodi della sua vita, episodi della sua immaginazione, episodi delle sue fantasie poetiche” (Janus) – e di suggestioni provenienti da un immaginario spirituale collettivo e condiviso, da una visione del mondo che si appropria di dettagli in grado di far presa immediata sulle genti di ogni tempo e luogo, di estrarre dalla vicenda umana l’invariante del turbamento dovuto all’assurdità dell’esistenza: la forza della pittura di Lepri, chiarisce puntualmente Janus già negli anni Settanta, sta nella sua capacità di farsi “interprete d’un disagio universale, d’un vivendi taedium che prende aspetti inquieti e sottili”. Una noia che incombe, che ammala il pensiero del pittore, un pensiero “che ripercorre tutti i sentieri del passato ed ora s’azzarda a commentarli”, trovando nel senno di poi, nella ragione a posteriori, lo strumento più giusto per tentare una diagnosi visivo-intuitiva delle angosce millenarie che affliggono la specie umana. Approcciarsi a un quadro di Stanislao Lepri significa fare i conti con un quadro clinico introverso, con le ansie introverse dell’uomo particolare, quanto con preoccupazioni di ordine più generale, inquietudini più totalizzanti, trattate con lenti ampie e grandangolari o con zoom e incursioni ravvicinate.

Stanislao Lepri, L’Oeil dans le jardin, 1968, olio su tela, 65×100 cm. Courtesy Galleria Tommaso Calabro

Nei quadri di Lepri si respira l’aria pesante delle cene in solitaria e l’euforia dei cortei papali e delle riverenze nel deserto; si è messi di fronte all’apatia e alle crepe epidermiche di decomposizioni prossime come all’impertinenza di un bimbo che sbircia sotto un panno a protezione di una creatura incognita; nei quadri di Lepri l’insensatezza dei legami è anche quella della fisica impossibile, è la rampa di scale a chiocciola capovolta, e il caos di figurine fiamminghe in fuga, senza meta su carri a cavallo e auto moderne, fa da contrappunto alle adunate di chi scolpisce miti a rilievo, alla fiducia di chi alza palazzi altissimi e torri di uomini a sfidare il cielo.

C’è tanto altro, nelle sue tele, e oltre l’umano, anche l’animale eretto a totem: il cavallo bianco e purissimo, il rinoceronte perfettamente frontale, il pipistrello a guardia della cantina o ancora il gatto, creatura divina cara agli Egizi e a Leonor, è uno stratagemma visivo credibile per dare corpo alle “ossessioni, tensioni, conflittualità che ricorrono negli stati onirici” (Alessandra Scappini, Il paesaggio totemico tra reale e immaginario). L’animale come presenza fugace, l’apparizione di un occhio nel sottobosco, l’irruzione di uno squarcio di surrealtà nella mediocrità della vita, nonché un interlocutore credibile anche per l’Amleto personale di Lepri, che rivolgendo le sue questioni a un cranio bestiale quasi a sancire una sorta di continuità nel tormento, si fa allegoria di un uomo e di un pittore che, richiamando per l’ultima volta Alain Jouffroy, “si lascia invadere dalla notte” ascoltandone i consigli. 

Stanislao Lepri
fino al 24 giugno
Galleria Tommaso Calabro
Piazza San Sepolcro, 2 – Milano