L’artista non gioca a tennis. Un commento sul dibattito con Luca Rossi da AlbumArte

In occasione dell'uscita del suo libro Slowarte, Luca Rossi, la “primula rossa” del sistema dell’arte italiano, è stato ospite a Roma in un dibattito “uno contro tutti”

Per chi scrive, il “fenomeno” Luca Rossi è qualcosa di relativamente nuovo. Nel 2009, al lancio del blog whitehouse, primo avamposto del dissenso da cui quello che era ancora un agguerrito sconosciuto faceva partire i suoi attacchi al “sistema” italiano dell’arte, ero troppo giovane e disinteressato a quel mondo e alle sue storture. Quattordici anni dopo, con altra consapevolezza, mi trovo anch’io ad affrontare l’elefante nella stanza: la crisi, vera o presunta, di quel sistema. L’ospite scomodo è ancora Luca Rossi, che lo scorso sabato 4 marzo 2023, nello spazio romano di AlbumArte, ha preso la parola in un dibattito “uno contro tutti” assieme a Paola Ugolini Adriana Polveroni. Dalle prime omelie di protesta, e dalle prime pizze consegnate a Massimo De Carlo (2009) Luca Rossi, nel frattempo, ha gettato la maschera: al centro del progetto collettivo c’è infatti Enrico MorsianiVillain conclamato, Morsiani è il “disco rotto” che muove le medesime polemiche dei primi tempi, con formule caustiche, talvolta recepite come offensive e scostanti: appellativi come Ikea evoluta – espressione che indica lavori deboli, gonfiati nel prezzo dal “doping delle pubbliche relazioni” – o ancora giovane Indiana Jones (l’artista che “fa spesa” nel “fast food della storia”, scavando nel passato declassato a campionario di forme) che però si dimostrano, il più delle volte, completamente inoffensivi.

Se è vero che il dileggio funziona per avere ascolto – da uomo di pubblicità, Morsiani sa che non è con l’alzata di mano educata che si ottiene un posto al tavolo delle trattative – dall’altro rischia di venire immediatamente digerito dal “nemico”. Rimango scettico, ad esempio, sulla reale efficacia delle sue tattiche di guerriglia: circa il “sabotaggio” a Reaching for the stars, mostra che a palazzo Strozzi celebra il trentennale della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, va detto che un’operazione del genere, un remake fiorentino del primo “microattentato” alla galleria De Carlo, potrebbe essere rovesciato nel meme – o, peggio, nel silenzio – da parte di due istituzioni che da sempre mettono il lavoro sui social al centro delle loro campagne di comunicazione, sviluppando gli “anticorpi” dell’autoironia. Se il lavoro crito-artistico di Luca Rossi non pare convincermi, la diagnosi generale sullo stato di salute del sistema, invece, non può non trovarmi d’accordo, anche se solo in parte: quante volte la mancanza di spessore critico, la scomparsa dei paradigmi negativi – se qualcosa “non va”, è bene non parlarne – può essere ascritta a un clima inquisitorio? E quante volte, invece, la censura è l’alibi perfetto che maschera una preparazione inadeguata? Pur dovendo fare i conti con una filiera che privilegia il networking, talvolta anche nella sua involuzione deteriore (il personalismo), il vigore critico viene spesso a mancare anche per un errato inquadramento del problema, per la confusione tra critica e dissenso duro e puro. Più che fare figli e figliastri, che “promuovere” e “bocciare” con motivazioni a volte sommarie (e il “professor” Rossi mi perdonerà se darò alle sue pagelle il peso che si dà alle boutades), la critica deve offrire un metodo senza, tuttavia, sedurre il pubblico con il fascino dei numeri e con l’allure della precisione scientifica.

Già in passato, argomentando in favore del Rossi Rating  un sistema di valutazione che, assegna all’opera un numero tra zero e cento – Luca Rossi aveva tentato di smarcarsi dal sospetto di oggettivismo: se le sue dichiarazioni sembrerebbero avallare le posizioni di John Keating/Robin Williams – “si può giudicare la poesia facendo la hit parade?” – il Rossi Rating, nella pratica, dotando l’opera di una sigla alfanumerica quasi da “classe energetica” (80AA, 65AA), smentisce le sue stesse premesse teoriche. Il metodo critico, al contrario, lungi dallo strizzare l’occhio all’algebra, deve far propri gli strumenti della retorica, affiancandoli al rigore storico-filologico, all’analisi comparata dei contesti e soprattutto alla piena coscienza della difficoltà con cui un artista, nel XXI secolo, a “cose fatte” e nell’epoca della postproduzione (Bourriaud) si muove alla ricerca di un’identità individuale, con tutti i timori dello stigma. No, la critica non è competizione, e l’arte non è uno sport, un sistema chiuso, con regole precise che definiscono vincitori e vinti. Le carriere di un Tosatti o di un Andreotta Calò, di una Cenci o di una Senatore – artisti già finiti nel mirino di Morsiani – non sono assimilabili al percorso di un Berrettini, e il critico non è certamente un allenatore. L’artista, per fortuna, non gioca a tennis. 

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