«La mia casa è il barchino»: a pronunciare queste parole è Daniele, giovane ragazzo veneziano, di ventiquattro anni, protagonista di Atlantide, lungometraggio completato nel 2021 dal regista ravennate Yuri Ancarani (1972), a cui il MAMbo di Bologna ha dedicato, in occasione di ArtCity, una mostra – parte dell’agenda del main program – curata da Lorenzo Balbi e allestita nella Sala delle Ciminiere del Museo. Atlantide 2017-2023, inaugurata lo scorso 2 febbraio e aperta fino al prossimo 7 maggio, viene definita un’esplosione del film, presentato alla 78esima edizione del Festival del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, e candidato nel 2022 al David di Donatello come miglior documentario.

L’idea del film, ha confessato Ancarani, nasce più di dieci anni fa, quando il regista si imbatte per la prima volta in un “barchino”, un piccolo mezzo dove molti giovani, in laguna, trascorrono gran parte del loro tempo. Un vero e proprio microcosmo, «utilizzato dai giovani maschi per fare […] tutte le iniziazioni per diventare adulti», epicentro e simbolo di un fenomeno antropologico dai tratti quasi “tribali”: il culto della velocità incisa sulle briccole (le strutture in legno che in laguna segnalano le vie d’acqua), il desiderio del primato (nel film, l’obiettivo di Daniele è superare gli 85 km/h raggiunti da un’altra imbarcazione), la transizione a volte goffa dalla fase dell’infanzia al machismo ostentato dell’adolescenza. Un limbo delicato, un periodo di passaggio di ricerca del senso e del proprio posto nel mondo, che rende la realtà infinitamente più drammatica della fantascienza. Lo stesso Ancarani, del resto, battezza la sua opera come horror: «Mi occupo di cinema del reale, di realtà, di verità, proprio perché oggi la verità fa molto più paura della fantascienza e dei film horror».


Un certo senso del dramma pervade anche gli spazi del MAMbo, che si apre totalmente al buio come ambiente inquieto, privando il pubblico delle coordinate abituali. Già dalla prima sala, una sorta di “anticamera”, l’oscurità prende il sopravvento, lasciando lo spettatore solo davanti al primo dei 17 video-wallsinstallati per l’occasione che proietta materiale inedito. Lo spaesamento prosegue nello spazio principale, che vede affrontarsi due schermi ancor più grandi sui quali un sacerdote è intento a spazzare sotto un portego, mentre – dall’altra parte – un musicista di strada suona la fisarmonica. L’isolamento dei grandi riquadri, assorbiti totalmente dal buio, risulta un espediente efficace per valorizzare il cinema di Ancarani nella sua orizzontalità pronunciata: «Passiamo la giornata a scorrere in verticale – ha confessato Ancarani – come fai a non pensare ad un cinema che scorre in orizzontale?».
Sul corridoio laterale di sinistra, due video restituiscono altrettanti momenti in cui il barchino si fa “luogo dell’amore” – tra i passaggi rituali, anche l’applicazione, sul barchino, di un adesivo con il nome della propria fidanzata – mentre, nella saletta di fondo, il mezzo diventa la “tomba perfetta”, e brucia, in primo piano, nella notte, sullo sfondo di un San Francesco del deserto – isola al largo di Venezia – che nel disegno dei cipressi porta a un’altra isola, quella dei morti dipinta da Arnold Böcklin.
Nell’ultimo ambiente, senza dubbio il più iconico, un’altra sequenza di proiezioni – con le ultime battute del film – occupa le pareti laterali, da cui partono fasci di luci laser che invadono il vuoto e che ravvivano il buio complessivo, tentando di restituire nel suono delle strumentali trap del giovane produttore Sick Luke, e nell’accensione cromatica delle luci al led, le stesse luci dei barchini, l’habitat naturale di una Venezia vissuta, vera, e che, occultata dalla narrazione turistica, appare paradossalmente segreta, sotterranea. Capovolta, forse, come nelle scene finali del film.

Yuri Ancarani, Atlantide 2017-2023
a cura di Lorenzo Balbi
fino al 7 maggio
MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna
via Don Giovanni Minzoni, 14 – Bologna