«Fa dei grandi quadri bianchi, con delle cose piccole piccole che bisogna guardare da vicino», disse Marcel Duchamp a Pierre Cabanne, a proposito dell’arte di Gianfranco Baruchello, scomparso sabato a Roma a 98 anni.
Maestro indiscusso del nostro tempo, Baruchello (Livorno, 1924) non ha avuto subito il riconoscimento che gli spettava. Dopo una laurea in Giurisprudenza, aveva fondato un’azienda di ricerca e produzione chimico-biologica, prima di dedicarsi completamente all’arte. Pittore raffinato, videomaker rivoluzionario, pensatore, un personaggio complesso, multiforme che ha saputo scardinare non soltanto le regole della narrazione audiovisiva, sperimentando tecniche e linguaggi, attraverso un lavoro quasi di montaggio che applicava a tutta la sua opera.
Dalla metà degli anni cinquanta, infatti, l’artista ha esplorato pittura, installazione, assemblaggio, film, fotografia, disegno, scrittura e sonoro, elaborando uno degli stili e delle poetiche più sperimentali del panorama italiano con una ricerca visiva che andava ben oltre gli ambiti linguistici tradizionali e introducendo nel linguaggio dell’arte le pratiche dell’agricoltura, dell’antropologia e dell’economia come forme di analisi critica della società dei consumi.
La sua formazione e maturazione in campo artistico comincia a Parigi dove conosce Roberto Matta, Alain Jouffroy, John Cage e gli altri espressionisti americani, ma cruciale sarà il suo incontro con Marcel Duchamp. La prima collettiva arriva nel 1961 alla Galleria Anthea di Roma, poi la mostra a New York con Pierre Restany alla Sidney Janis Gallery, mentre la personale, nel 1963, a La Tartaruga di Plinio De Martiis.
Arriva il sodalizio con Alberto Grifi, a metà degli anni Sessanta, col quale realizza il suo film più famoso, Verifica incerta (1964-65), operazione di found-footage o, meglio, object-trouvé filmico, con la presenza di Duchamp che compare mentre fuma in alcuni spezzoni muti in bianco e nero, e lo presenta nei templi dell’arte di Parigi e New York. Parliamo di 150.000 metri di pellicola di film (quasi tutti statunitensi) degli anni cinquanta e sessanta, perlopiù in cinemascope, sottratti al macero per 15.000 lire. Solo il montaggio dura sette mesi, riducendo la mole enorme di materiale filmico a 40 minuti. In generale, nell’arco di una carriera durata una vita lunghissima, attraverso il medium filmico prima e videografico poi, realizzando oltre 80 pellicole.
Nel 1973 Baruchello si trasferisce in campagna dove fonda l’Agricola Cornelia S.p.a., azienda dove all’attività lavorativa si affianca quella speculativa e creativa. L’Azienda, infatti, sottrae campo d’azione alla speculazione edilizia con pratiche agricole e zootecniche, curando di fatto in maniera politica un ampio territorio ai confini di Roma, dove non mancano testimonianze archeologiche. «Occupare terreni incolti destinati alla speculazione edilizia – dirà – seminarci 5 (cinque) chilogrammi di barbabietola da zucchero e raccoglierne dopo qualche mese 84340 (ottantaquattromilatrecentoquaranta) chilogrammi, pari a tre autotreni con rimorchio, è più o meno artistico (perché “utile anziché inutile”) che praticare nello stesso periodo puri movimenti di terra tipo Land Art atti a modificare esteticamente le superfici?». Il progetto continua negli anni mutando nome e forma, trasformandosi ne il Giardino dal 1985 e dal 1990 ne il Bosco.
Dall’esperienza utopica di Agricola Cornelia nasce la Fondazione Baruchello nel 1998 per volontà dell’artista e della compagna, la professoressa e storica dell’arte Carla Subrizi, nel Parco di Veio, per poi sdoppiarsi nel 2016, in via del Vascello, con una succursale più piccola di 300 mq.
La Fondazione lavora a doppio filo all’archivio storico dell’opera dell’artista, dal 1951 – una biblioteca di circa quarantamila volumi – e la promozione dei giovani artisti, con superfici esterne per circa undici ettari, attrezzature e impianti audio-video, attività di formazione, di ricerca, di residenza, di studio e di esposizione.«Con la sua ricerca che ha toccato tutti i media in parallelo, senza sacrificarne alcuno e cercando non all’interno di un linguaggio specifico ma tra i linguaggi cosa si potesse sperimentare, Baruchello è il testimone di un’altra storia – ha dichiarato la compagna Subrizi –la Fondazione ha dunque raccolto questo patrimonio storico e lo ha posto alla base di una progettualità che prosegue molte delle direzioni di ricerca avviate da Baruchello: arte e natura, arte e paesaggio, arte e politica, arte e immaginari».
Nel ricordo di Pablo Echaurren sull’Huffington Post: «Non sarei quello che sono, non farei quello che ho fatto e ancora faccio se non avessi incontrato Baruchello quando ero un adolescente scalpitante. Lui mi ha fatto da padre (in senso letterale), da guida, da tutore».
Una figura cardine per molti, ma il riconoscimento vero per Baruchello arriva tardi, negli anni 2000, con la mostra Gianfranco Baruchello. Certe idee a cura di Achille Bonito Oliva alla Galleria Nazionale d’arte moderna di Roma, e poi tutta una serie di mostre antologiche dedicate alla sua intensa produzione artistica, venute fuori a catena. «Un giorno che era già oltre i novanta e stava ancora chino su un alluminio a disegnare, gliel’ho chiesto – si chiude l’immagine nella memoria di Echaurren – “Come ti senti adesso che ti hanno scoperto? Ti senti un poco risarcito? Ti sei tranquillizzato?”. “Un po’ tardi” mi ha risposto».