Una lista di libri poggiati sul comodino, una serie di flyer sparsi, un elenco di pagine web aperte sullo schermo e un profilo su Tik Tok, sono la fotografia di Jacopo Miliani, del suo presente raccontato in questa intervista.
Rappresentare una scena, qualunque essa sia, è difficile; rappresentare la scena queer non ha senso: «Smetterebbe di essere queer», avverte l’artista, ecco perché una serie di pezzi di vita risultano più coerenti che mille nomi, mille parole. Una mostra, un libro e un film sono le componenti di una delle ultime fatiche di Miliani: La discoteca. Il progetto, vincitore dell’ottava edizione dell’Italian Council, racconta un futuro nel quale il ballo e il libero sfogo delle emozioni sono banditi. Un’autorità non ben identificata ha il potere di trasformare gli uomini in rose, tutti sono controllati digitalmente mentre vengono scelti per un rituale in discoteca: lo scopo è la riproduzione e il controllo della specie.
La Discoteca fra le righe di una trama distopica sembra raccontare molti dei temi che toccano le comunità queer, è così?
«Per prima cosa non definirei La Discoteca un film queer, non che nella domanda ci sia tale categorizzazione, ma a volte quando si parla di cinema e di generi questo può accadere. Uno dei temi principali del film è il rapporto tra il soggetto, l’individuo, e vari immaginari (ovvero modalità di immaginare e performare il reale). Tra questi immaginari, che possono essere classificati a livello sociale, sicuramente ci sono anche immaginari queer.
Fondamentale – continua l’artista – è stata la scelta delle attrici e degli attori, ovvero di soggetti che con le loro relazioni sociali, chiamiamole appunto comunità, contribuiscono a costruire e trasformare immaginari queer e non solo: Eva Robin’s icona del palco dal cinema al teatro; Pietro Turano attivista per i diritti LGBTQIA+, Eugenia Delbue performer e autrice, the Legendary Kenjii Benjii della scena Vogue, Anna Amadori attrice poliedrica, Charlie Bianchetti producer musicale e Alex Paniz performer cangiante. Con loro c’è stato un confronto e uno scambio costante su varie tematiche e fare il film è stato come creare una piccola comunità a cui hanno preso parte tutta la troupe e il team di produzione, tra cui persone che per la prima volta si interfacciavano con tematiche queer».
Negazione del divertimento, esclusione del ballo, controllo della specie, sono tutti elementi che sembrano descrivere al contrario la scena rave dei primi anni Novanta. Quanto quel mondo è stato per te un’ispirazione?
«Poca ispirazione da parte degli anni Novanta, seppure rappresentano la mia iniziazione al mondo della notte, invece nel film ci sono molti influssi dal periodo che dagli anni Settanta si estende verso gli Ottanta. Sono quelli gli anni in cui la discoteca italiana diventa un fenomeno unico e importante per varie comunità e individui che si incontrano in questi luoghi. Gli anni Ottanta sono gli anni dell’Italo Disco e quelli della mia infanzia; anche se non frequentavo le discoteche in quel periodo ho un vivido ricordo dell’immaginario ad esse collegate. Questo immaginario è stato riattivato da un lungo periodo di ricerca che ha portato alla costruzione filmica e ve ne è una traccia nei testi di Luca Locati Luciani e Mariuccia Casadio presenti nel libro La discoteca. Nel libro sono raccolti molti materiali provenienti da archivi che tentano di conservare e promuovere la cultura LGBTQIA+ (Centro di documentazione Flavia Madaschi e Centro di documentazione Aldo Mieli). Nel libro, oltre ai testi, ho scelto di mappare l’effimero sudore del dancefloor attraverso una raccolta di flyer delle discoteche queer italiane».
Il corpo (performance, voce, trasformazione) è un oggetto di studio privilegiato per toccate tematiche socialmente non conformi: dalla ribellione contro il mercato dell’arte al femminismo, pensi sia una via anche per il mondo queer?
«Mi piace pensare e praticare il corpo non come un oggetto di studio, ma come soggetto da cui è possibile immaginare e creare delle realtà. Questo tipo di costruzioni possono essere analizzate attraverso una metodologia performativa del “come le costruiamo” piuttosto che del “cosa rappresentano”. Il mondo queer è a mio parere una modalità interessante di “come costruiamo il reale”».
Politicizzare l’arte, fare del proprio lavoro una bandiera; o al contrario, liberare l’espressione da ogni ideologia: come può l’arte toccare temi come quello lgbtq+ senza trasformare il lavoro e il tema stesso in un talk elettorale?
«I talk non mi spaventano, le elezioni si: Carmelo Bene andava al Maurizio Costanzo Show così come ci andava Giorgia Meloni (anche se lei era a vociare tra il pubblico in platea e non a sussurrare dal palco). Se l’arte non fosse considerata un’esigenza secondaria, ma fosse concepita come un diritto fondamentale all’ascolto e al confronto, se praticassimo l’arte non come un’affermazione del sé ma come una metodologia per riformulare il linguaggio e quello che definiamo il reale, pensando quindi che l’arte sia una possibilità per osservare e costruire la realtà forse capiremo che l’arte è una necessità primaria e ne avremo cura in tal senso».
Citare nomi è sempre noioso, ma ci sono lavori, scene o festival che più di altri riescono nell’intento di rappresentare il mondo queer?
«Rappresentare il mondo queer non credo sia possibile, perché finirebbe per smettere di essere queer. Trovo che questo tipo di domande sono interessanti come fotografia del mio presente: vi racconto di cosa ho sul comodino e tra i preferiti del browser:
_José Esteban Muñoz, Crusing Utopia (2009), traduzione di Nina Ferrante e Samuele Grassi, Nero Edition, Roma 2022;
_ Pier Maria Bocchi, Mondo Queer. Cinema e militanza gay, Lindau Torino 2005 (consigliato da Luca Mosso);
_Il film Libera di Pappi Corsicato;
_Il sito del festival Gender Bender a cura di Daniele Del Pozzo e Mauro Meneghelli;
_Il profilo di yogurt_taiyang su Tik Tok
_Il flyer della mostra di Sara Scanderebech da Spazio Martin;
_Il video della canzone Amam Ancora di Nziria;
_Un invito di una collezione di AdrianaHotCouture;
_Il comunicato stampa del Padiglione del Portogallo con il progetto Vampires in the Space di Pedro Neves Marques».
Parlare di radici nel mondo Lgbtq+ è fuoriluogo, ma ci sono movimenti, lavori del passato che ispirano la scena presente?
«Recentemente sono stato invitato – così come è stata invitata Dafne Boggeri – da Anna Daneri, Francesco Urbano Ragazzi, Marco Fiorello e Carlo Antonelli a partecipare con un mio contributo effimero (una cartolina) alla mostra 5 Aprile 1972. 50 anni di movimento LGBT+ in Italia e in Liguria. Cito dal comunicato stampa: “5 aprile 1972: è una data fondamentale nella storia del genere umano. Tutto inizia nella città di Sanremo, per poi espandersi molto al di là dei confini geografici. Quel giorno un gruppo di psichiatri si riuniva al Casinò per disquisire di omosessualità̀ come patologia, ma i militanti del neonato Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano decisero di convergere da diverse parti d’Europa per dire “adesso basta!”. I manifestanti del FUORI si travestirono da psichiatri e interruppero quel convegno per dare a tutti una magnifica lezione di civiltà̀”. Una manifestazione en travestì per prendere i panni dell’altro e parlare di alterità, trovo tutto questo ricco d’ispirazione».
L’artista è rappresentato da Studio Dabbeni, Lugano e Galeria Rosa Santos, Madrid/Valencia. La discoteca è un progetto curato e prodotto da Elisa Del Prete e Silvia Litardi / NOS Visual Art Production, realizzato grazie al sostegno della Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito del programma Italian Council.
Jacopo Miliani (1979) è un artista visivo, la cui pratica affronta la performance come metodologia espansa che mira a indagare le connessioni tra linguaggio e corpo. È il fondatore di un progetto editoriale indipendente incentrato su sessualità e linguaggio: Self Pleasure Publishing. Ha collaborato con diversi performer, tra cui Jacopo Jenna, Antonio Torres, divaD, Benjamin Milan, Mathieu LaDurée, Eve Stainton.
I suoi progetti hanno coinvolto professionisti di varie discipline, tra cui il regista Dario Argento, gli stilisti Boboutic, il produttore musicale Jean-Louis Hutha, la semiotica Sara Giannini. Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali e collettive: il Centro Pecci, Prato (2021); GAMeC, Bergamo (2019); Galería Rosa Santos, Valencia (2018); Palais de Tokyo, Parigi (2017); David Roberts Art Foundation, Londra (2017); Kunsthalle Lissabon, Lisbona (2016); ICA studio, Londra (2015); Studio Dabbeni, Lugano (2015); museo Madre, Napoli (2011). Nel 2021 ha scritto e diretto il suo primo film La discoteca, (25 min.) un progetto a cura di NOSprodcution, vincitore dell’Italian Council (VIII edizione, 2020).