Si chiudono i sipari di Panorama. Monopoli, teatro da favola affacciato sull’Adriatico, saluta le sessantacinque gallerie italiane raccolte sotto il segno di Italics, il consorzio nato nel 2020 che raccoglie il meglio dell’offerta italiana in fatto di arte antica, moderna e contemporanea. Lo sforzo corale guidato dalla figura di Vincenzo de Bellis lascia al borgo pugliese in eredità spazi rimessi in stato di fruizione dopo anni di chiusura al pubblico, un’affluenza internazionale di tutto rispetto e una prospettiva inedita da cui partire per definire una proposta alternativa nell’esperire il patrimonio culturale locale.
Il curatore racconta il temporaneo ritorno nella sua terra natia tra la direzione del Walker Center di Minneapolis e la futura esperienza come Director, Fairs and Exhibition Platforms di Art Basel, l’esperienza di collaborazione con l’amministrazione territoriale e riflette con noi sull’evoluzione di un nuovo modo di veicolare l’arte nella sua dimensione ibrida tra esposizione e mercato.
Prima Minneapolis, tra poco Art Basel, ma adesso Monopoli. Cosa significa tornare in Italia e lavorare nella propria terra, la Puglia?
«In questo momento sento un grande senso di orgoglio ma non nascondo che nella fase di produzione sono stato colpito da un forte senso di angoscia dovuto alla consapevolezza di cosa significhi per me questo luogo e l’ansia di performare nella maniera più efficace. Era forte la fiducia nel progetto ma anche la paura di non essere compresi da parte della comunità locale che invece alla fine tutto è andato per il verso giusto».
Un progetto come Panorama rende al territorio qualcosa di concreto: la riattivazione di spazi che da tempo erano chiusi è un gesto significativo. Da cosa nasce questa volontà e come è stata accolta da parte del pubblico monopolitano?
«L’idea è nata dopo la decisione di affidarmi la curatela della seconda edizione dell’iniziativa. Ho molto insistito nel voler organizzare l’evento nella mia terra. La possibilità di guidare un progetto simile, destinato ad essere affidato ogni volta a una curatrice o a un curatore diverso, per due anni è un unicum e quindi ho richiesto espressamente questa nuova destinazione. In quel momento, dopo un primo sopralluogo, gli spazi selezionati erano in uno stato disastroso ed è stato necessario uno sforzo di fiducia e lungimiranza nell’immaginarne trasformazione. L’amministrazione di Monopoli ha accolto con entusiasmo la decisione e si è impegnata enormemente affinché si riuscisse nello scopo, attivando un dialogo efficace con tutti gli altri enti proprietari dei luoghi che oggi hanno ripreso vita».
È stato un lavoro corale e i risultati si vedono…
«Si esatto, assolutamente, l’affluenza del pubblico è stata trasversale, sia dal punto di vista locale che nazionale e internazionale. Lo sforzo comunicativo da parte mia e di tutto il team è stato prezioso e ha garantito a diversi tipi di pubblico di conoscere il borgo di Monopoli per la prima volta».
La scelta di dare all’arte, in particolare contemporanea, nuovi spazi nei quali essere vissuta ha davvero il potenziale sperato? Quanto un progetto come questo può essere efficace in un’operazione di apertura verso il pubblico più generalista ?
«Puoi avere un impatto davvero importante nel momento in cui questo viene a dilatarsi sulla lunga prospettiva. Il modo in cui si fruisce dell’arte deve cambiare e deve evolvere in qualcosa che ancora non conosciamo. La scelta di concentrare in poche giornate d’esposizione l’intera iniziativa nasce da uno sforzo collettivo: il lavoro del consorzio Italics può avere un lungo respiro, l’obiettivo ideale è quello di toccare ciascuna delle venti regioni spostandosi ogni anno».
Quanto è importante la scelta di fare rete in una realtà italiana reduce da anni di individualismo da parte delle gallerie locali?
«È fondamentale. Il consorzio ha generato un figlio, Panorama, e questo figlio ha reso visibile ciò che era la volontà del consorzio al suo principio. Ora è tangibile ciò che il progetto ha previsto, si percepisce in maniera pratica e pragmatica il fine ultimo di Italics, riunire la bellezza dell’antico, del moderno e del contemporaneo e portare gli occhi del pubblico verso territori ancora poco conosciuti. Questo è un unicum che io sappia a livello globale».
Visitando le sedi si nota l’incontro della dimensione commerciale tipica delle gallerie con uno sforzo finalizzato alla divulgazione e alla valorizzazione del patrimonio. Panorama non si presenta come una fiera ma trattiene delle peculiarità capaci di far pensare a una sorta di ibridazione. Come commenta questa percezione?
«Chiaramente essendo Panorama un progetto gestito dalla rete di gallerie d’arte, è innegabile l’emergere di una vena più incline all’attitudine commerciale. Le gallerie non fanno solo commercio ma certamente questo è il loro core business. Questo però vale per qualsiasi evento d’arte, per qualsiasi mostra, anche nei grandi musei, anche la Biennale di Venezia. Si insiste molto sul fatto che questa non sia una fiera: una fiera è immediatamente riconoscibile come commerciale e deve essere costruita in un contesto più asettico possibile per facilitare la vendibilità delle opere. Anche in questo caso le opere sono in vendita, certo, ma sono state inserite in una cornice curatoriale che rende possibile far emergere più di ciò che l’opera nella sua singolarità saprebbe raccontare. La deformazione professionale dei galleristi li può portare in alcuni casi a stare vicino alle proprie opere per raccontarle nel modo più efficace ma questo non vuol dire nulla. Qualcuno più polemicamente ha definito Panorama una “fiera nascosta”. Nessuno qui vuole nascondere il lato commerciale di questa iniziativa se ammettiamo a noi stessi che ogni evento d’arte è in realtà un evento commerciale. Se diciamo che la Biennale di Venezia non lo è allora mentiamo a noi stessi, perché è uno dei più importanti centri del mercato globale che l’arte oggi conosca.»
È questo è un bene o un male?
«Non c’è nulla di male, dalla vendita di opere gli artisti guadagnano e questo rende possibile garantire loro un lavoro e una produttività costante. Si autogenera un circuito virtuoso. Questa ossessione che la gente ha di vedere nel mercato una sorta di demonizzazione per me è errata».
Quanto questa messa all’indice della realtà commerciale appartiene al sistema italiano? Nelle realtà internazionali è presente lo stesso risentimento?
«Queste polemiche, queste sottolineature vengono fatte da tutto il mondo dell’arte. È un mondo di bigotti, nel senso che la quasi totalità del mercato dell’arte si basa su pochi individui con grosse potenzialità economiche ai quali tutti cercano di piacere, artisti, galleristi, tutti, ma dobbiamo far finta che non sia così perché produciamo cultura. In italia questo fenomeno è più accentuato perché qui lo stato sociale è molto presente, il welfare è molto presente. C’è una convinzione erronea a mio avviso che l’arte sia una cosa di tutti quando non è mai stato così. Chi dice il contrario non ha mai studiato la storia dell’arte. Questo non vuol dire che l’arte non possa essere esperita pubblicamente, ma l’arte non è mai stata di proprietà pubblica. Nessuno può arrogarsi un diritto che non ha rispetto a un opera che invece è di chi l’acquista. Il mondo dell’arte visiva è composta da oggetti, e questi possono essere acquisiti da persone che ne diventano i proprietari. Non vale lo stesso discorso per il cinema, per la letteratura dove la fruizione e il possesso sono concetti molto simili, sono sullo stesso piano. Non è così con le arti visive, è necessario prenderne atto, è sempre stato così, prendere o lasciare».
A questo discorso si lega la scelta di proporre un evento come Panorama senza nessun costo per i visitatori?
«La scelta della gratuità è infatti un regalo alla popolazione e alla terra che ci ospita. Non si può pensare di far diventare un evento come questo commerciale per l’intero pubblico. A quel punto sarebbe una mostra come tante altre ma sarebbero radicalmente diversi gli assunti. Non è una mostra che nasce in una dimensione tradizionale. Panorama nasce dal dialogo di un curatore con dei galleristi e degli artisti e non si è mai posta di fronte a noi l’opzione di renderla “sbigliettabile”».
La nascita di un network italiano così ampio è indice di un cambiamento sostanziale a livello nazionale. Come giudica lo stato di salute dell’arte contemporanea italiana oggi?
«Secondo me l’arte, in termini di produzione, non è in un buon momento ma è invece in ottima salute l’arte in termini di fruibilità. Può sembrare un paradosso ma forse non lo è. Gli artisti italiani soffrono moltissimo oggi, c’è una mancanza endemica di strutture educative, le accademie sono vetuste nel loro modo di insegnare, nel modo in cui provvedono alla formazione di nuovi artisti giovani. Proliferano progetti più innovativi come Italics infatti, ma anche altri, come Una Boccata d’arte. Il problema è che questo accade in un momento in cui l’arte contemporanea è in una fase piuttosto deprimente».
Dopo questa seconda edizione si chiude il cerchio aperto nel 2021 con Panorama. Progetti per il fututro?
«Progetti per il futuro? Prima chiuderò la mia esperienza a Minneapolis con la mostra dedicata a Kounellis e da ottobre sarò a Parigi, per Art Basel, per la prima delle quattro fiere di cui sarò direttore dei loro direttori».