L’ancestrale, l’atavico, il binomio tra antico e contemporaneo, l’aspetto della raccolta, dell’archiviazione spesso legato poi alla memoria, l’intreccio tra la sfera onirica e quello dell’intelligenza artificiale, tutto ciò è il focus della ricerca attuale di Silvia Bigi. Artista visiva in senso lato, che parte dall’immagine contemporanea come “post-fotografia” o “meta-fotografia” come portale di accesso ad altri livelli di consapevolezza e di ricerca, la sua pratica si colloca un po’ a metà tra la pratica visiva, la visual culture e tutte quelle pratiche che cercano di accedere a un’altra dimensione dell’immagine fotografica nello spazio contemporaneo, questo mondo si interseca poi con l’arte concettuale, che invece parte dal pensiero e cerca forme ibride, tutte diverse. Spesso i suoi lavori nascono da un pretesto narrativo autobiografico che poi si espande e diventa collettivo. Come lei stessa dice: «partire da storie personali mi aiuta a trovare un punto di vista sulle cose e ad accedere poi da quel punto di vista alla realtà e a restituire uno sguardo più preciso, più chiaro». Proprio il pretesto narrativo autobiografico, il suo racconto, la sua presenza, il suo svelare il meccanismo che sottende le sue opere è stata la chiave di creazione di un’ infatuazione per attirare il collezionismo, collezionismo che, ci racconta Silvia «in realtà cerca delle forme stabili e riconoscibili e anzi, lo sguardo si posa sul lavoro nel momento in cui quella forma è circoscrivibile, identificabile, chiara e stabile».
Troviamo nel suo modo di fare arte una messa in relazione tra tutto ciò che accompagna l’umanità dalle origini, e che in qualche modo abita le nostre esistenze seguendo un approccio molto fluido, che le permette di spostarsi e restituire uno sguardo del reale, un approccio che le fa penetrare il reale, un approccio che si potrebbe dire olistico, che vede tutte le cose come profondamente interconnesse, spingendoci a riflettere e ad infrangere i compartimenti stagni e la suddivisione che il mondo di oggi ci porta a creare; questi aspetti che vengono un po’ sottovalutati nel nostro presente e che sono riattualizzati e traghettati nel futuro dalle tecnologie. L’idea che in qualche modo sia tutto interconnesso compresa ogni forma di intelligenza. Un’idea di tempo multiforme in cui ci si può muovere, un tempo in cui viene messa in discussione la sua costruzione lineare attraverso espedienti narrativi, come possiamo vedere per esempio nella sua opera L’albero del latte del 2017, in cui esplora il tema dell’identità di genere, sollevando riflessioni sul ruolo della donna nella società contemporanea, risalendo alle origini e interrogandosi sul rapporto tra natura e cultura e sulle possibilità di sovvertire le norme sociali dominanti; un tempo che permette all’artista anche di proporre piccoli innesti temporali, piccole storie che si vanno in qualche modo a collocare e ridefiniscono anche lo spettro del reale. Tempo inteso come una forma piuttosto complessa in cui il reale e l’immaginario si fondono profondamente, un tempo che si può spostare grazie all’azione artistica, in cui c’è spazio di comunicazione, in cui si può andare avanti o tornare indietro, un tempo circolare come vediamo nell’opera From dust you came (and to dust you shall return) in cui delle immagini vengono modificate, trasformate e cancellate per produrre un’altra sostanza, uno spazio in cui c’è dialogo, uno spazio come dono, come fiducia che lei stessa avrebbe voluto e spera che il pubblico ritrovi nella sua pratica.
«L’idea del sogno e della sfera onirica che si intreccia all’intelligenza artificiale è nata durante il periodo pandemico, – ci racconta Silvia – un periodo fatto quasi essenzialmente da commissioni, lo stesso lavoro sui sogni infatti deriva da una commissione in cui le era stato chiesto di riflettere proprio sull’inizio del momento pandemico, e cercare di raccontarlo. Un periodo fatto di cambiamento, di trasformazione in atto, difficile da esprimere attraverso il visivo per Silvia Bigi, ma segni evidenti di quello che stava accadendo soprattutto a livello individuale come anche anche collettivo e sociale erano presenti nell’invisibile, nel latente, nel sogno; Silvia trova delle risposte che hanno una natura complessa, immagini archetipiche, immagini profondamente ancestrali, ma che grazie alle nuove tecnologie possono affiorare, arrivare in una forma che permette di interrogarci in maniera più profonda, simbolica.
Gli ultimi anni sono stati anche quelli caratterizzati da un forte disagio – ci racconta – non soltanto legato al periodo pandemico ma anche all’ambiente artistico di Milano, dove Silvia vive e lavora, fatto da alcune «dinamiche relazionali tossiche e controproducenti (ambiente completamente opposto a quello romano in cui c’è questa effervescenza e nascita di studi autonomi fatti da artisti); anni in cui ha sentito l’esigenza di rompere, decostruire queste dinamiche con una sorta di iniezione di verità e di trasparenza che rimane nascosta, un atto piuttosto forte, catartico per certi versi, ma chiaramente uno statement, anche un po’ politico perché – come dice Silvia – l’arte è sempre politica e il motivo per cui faccio l’artista è quello di comunicare e di esprimere il mio punto di vista sulle cose». Atto che possiamo vedere nell’opera testuale Non ho più voglia di perdere tempo a cercar di piacere. Il titolo dell’opera nasce da una frase presa dalla chat, frase intesa come una forma di resistenza e di adattamento all’isolamento, alla pandemia, alla chiusura, al bisogno di non disperdere le energie, di non rassegnarci.
Ultimamente poi sentendo l’esigenza di testare una serie di competenze, di studi di ricerca, soprattutto sull’immagine, Silvia ha sperimentato la pratica dell’insegnamento, rendendosi conto che essa è complementare a quella artistica, è un modo per misurarsi e per vedersi attraverso lo sguardo degli altri. Questa esperienza l’ha portata a ridefinire i confini del suo pensiero e di conseguenza il suo lavoro, influenzandolo fortemente. La stessa Silvia parla di un’osmosi fra queste due pratiche, pratiche che si influenzano: «l’insegnamento e la mia pratica si influenzano reciprocamente ogni giorno».