Azzedine Saleck, l’artista che si muove sul confine

Parigi

Come un nuovo Vito Acconci, artista dall’ampiezza grandangolare che nasceva dalla poesia, Azzedine Saleck porta la parola non a farsi segno bensì forma, in una traduzione e interpretazione più complessa, poiché più fluida e dunque non solo maggiormente mutevole nella mente dell’artista stesso prima e in quella dello spettatore poi, ma anche più ricca di significati, di pulsioni. La visione dei lavori di Saleck genera domande piuttosto che risposte, rincorrendo una deriva evolutiva a ogni costo, obbligatoriamente fluida; le loro forme, spesso monumentali, non sono concettualmente statiche: al contrario aprono sempre un varco, una breccia, uno squarcio che seppur doloroso diviene salvifico, propedeutico a una riflessione lenitiva, curativa. Con Long Distance, opera terza classificata al Talent Prize 2021, Azzedine Saleck ci pone dinnanzi a due cruciali quesiti: che cos’è un muro senza una porta? Che cos’è una porta senza muro? Queste domande rappresentano la genesi dell’opera, nonché il suo punto d’arrivo, proprio come un varco da cui si entra e si esce continuamente, ogni volta mutati di almeno un poco. Si può dunque dire che il lavoro di Azzedine Saleck raffiguri, a livello concettuale, una perfetta circolarità.

Qual è il processo creativo che ti ha portato alla realizzazione di Long Distance?
«Sono ossessionato dalle porte come simboli da un po’ di tempo ormai. Venendo a Roma, e vedendo una città che come Parigi è costruita intorno a un muro e alle sue porte, ho iniziato a fotografarle (proprio come ho fatto a Parigi), e quando mi è stata proposta una mostra nello spazio romano di Curva Pura ho deciso immediatamente di collegare la mostra alla mia ricerca in corso sui muri e sulle porte di accesso, su cosa la loro presenza significhi intorno a una città, come un confine, come luogo di controllo e di passaggio, e di come il loro essere monumentali influenzi le persone che vi entrano o escono. Desideravo collegare la mia ricerca e quindi la mia opera al contesto globale di flusso migratorio che influenza la politica, ho deciso quindi di erigere una porta al centro dello spazio della galleria in modo che per una volta non fosse un luogo di partenza o un’entrata (e quindi di arrivo) ma piuttosto un’esperienza fisica ed emotiva. I sacchetti di plastica che ho aggiunto ci sono perché ho immaginato questo pezzo realizzato in una scala molto più grande e inizialmente l’ho pensato come un monumento dedicato ai migranti da tutto il mondo, un luogo dove riposare dopo un lungo viaggio, un ipotetico nuovo mondo dove tutti siano ovunque i benvenuti, l’ultima porta prima di un mondo senza porte né confini».

That night, 2021

Come relazioni la poesia alle tue opere? Come crei questo legame speciale?
«Tutti i miei lavori nascono da un racconto o da una poesia. Prima di avere una forma sono parole. Sulla maggior parte dei miei lavori ci sono parole reali e poesie».

Le poesie a cui riferisci le tue opere sono scritti tuoi o a firma di altri autori?
«Tutte le parole collegate al mio lavoro sono mie, tranne che per una citazione che ho usato di recente, “Nolens Volens”, e per il titolo di una mostra in cui ho parafrasato una canzone intitolata “17 modi per spezzarmi il cuore”, che è diventato “17 modi per andare avanti”. Amo molto questa canzone e avevo bisogno di un titolo per la mia mostra, ma in generale non apprezzo i titoli delle mostre, ho sempre preferito avere un titolo generico per tutte le mie mostre».

Che cosa nella tua vita ti ha portato ad avvicinarti all’arte contemporanea?
«Sono cresciuto in Mauritania, dove l’arte contemporanea non esiste ed è stato solo quando mi sono trasferito in Europa con la mia famiglia che ho visitato una mostra: avevo 15 anni. Ho sempre voluto scrivere poesie e l’ho fatto, ma poi ho sentito che non era sufficiente a esprimere quello che sentivo. Inoltre l’arte sembrava più gratificante della poesia anche a livello economico».

La struttura dei tuoi lavori è complessa e si sviluppa attraverso l’utilizzo di diversi media. Perché questa scelta?
«I media nel mio lavoro sono determinati dalle parole, dalle poesie, ovvero dalle storie che alimentano le mie opere. Le forme e i materiali sono per me un vocabolario e cerco sempre di averne uno ricco per raccontare le mie storie, per mettere in forma le mie poesie. Alcune persone potrebbero pensare che c’è uno svantaggio di riconoscibilità nel mio lavoro, in seguito alla mancanza di uno stile chiaro, ma, citando una hit di eurodance, direi che “il mio stile preferito è il freestyle”».

Sei di origini mauritane e americane, ma vivi tra Parigi e Roma. Come viene utilizzato nei tuoi lavori il bagaglio di influenze che queste diverse culture ti hanno dato?
«La prima cosa che ho imparato essendo di origini diverse è che non sono mai completamente separato da un paese o da una cultura, questo perché sono cresciuto senza la necessità di appartenere a qualcosa, immagino. Ciò mi ha portato anche a non far mai veramente parte di una precisa scena artista o poetica, tranne per la scena underground parigina del 2010, ovvero quando mi sono trasferito lì per la prima volta: una scena fantastica di cui far parte perché era così libera, polimorfa e inclusiva, era tutto molto fluido. Così ho mantenuto sempre quell’idea di fluidità nel mio lavoro. Nella mia ultima mostra a Roma, invece di avere un testo classico a corredo delle mie opere, ho preferito far scrivere a Giuseppe Armogida, filosofo, editore e curatore, un testo sotto forma di lettera rivolta contro di me, dopo il nostro scambio sulla mostra. Non volevo che il testo fosse tradotto in inglese, quindi ho chiesto ad Audrey Gutman, un’amica artista e poetessa, di tradurre la lettera in inglese sotto forma di poesia. Ed infine ho chiesto a Brian Close, un artista digitale di New York, di dirigere un video 3D attorno a due frasi che sono state la genesi della mostra stessa: cos’è un muro senza una porta? Cos’è una porta senza muro?».