Edoardo Dionea Cicconi

Palermo

Edoardo Dionea Cicconi espone al Museo regionale di Messina. All’interno della Sala del Caravaggio l’artista ha presentato l’installazione XYZT.SP, strutture auto portanti in metallo con una superficie specchiante sul fronte realizzata appositamente per l’occasione (per leggere la notizia clicca qui). Dietro questo lavoro c’è una crescita artistica, una serie di lavori precedenti e un trasferimento a Palermo. Ne parliamo con lui per conoscere più a fondo la sua dialettica.

È passato quasi un anno dalla tua mostra personale in Sicilia con Fragments, presentata durante l’estate 2019 a Palermo. Cosa è cambiato rispetto ad un anno fa, come si è evoluta la tua ricerca?
«La mia residenza a Palermo mi ha fatto fermare e capire cosa stavo facendo negli ultimi anni. Ho realizzato che mi sono focalizzato su delle ”serie” di lavori, piuttosto che creare lavori singoli. BSE, la serie delle teche in vetro con gli insetti all’interno. Una psichedelia legata alla natura, una bellezza con un fondo di crudeltà, frutto del lavoro del mio padrino con l’entomologia, con il quale sono cresciuto; DUSKMANN Prelude, che come collettivo artistico indagava sugli astrattismi del mondo delle pietre e la modularità installatativa, con al centro una grande gemma rossa come un cuore pulsante; MONOLITH, che tentava di catturare simbolicamente l’essenza degli spazi (in quel caso la villa dove Galileo scrisse Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo) attraverso una luce proiettata su una matrice in vetro che, filtrando su di esso, creava ombre geometriche; FRAGMENTS, il tempo come frammento. Strisce di vetro che indicavano passato (attraverso immagini impresse sul vetro, come memoria collettiva) e del futuro (vetri colorati o specchi, indecifrabili ancora come ”memoria”, ma già esistenti). Nella sala anche una grande rete che simboleggiava un ponte di Einstein-Rosen che legava le due pareti e all’ingresso un tentativo di far perdere la cognizione della lucidità agli utenti, con buio, fumo e flash stroboscopici e un audio assordante che riprendeva frequenze dello spazio registrate dalla NASA. E l’ultima che ha indagato sullo spazio-tempo e le sue distorsioni a livello percettivo: XYZT.SP. Da Palermo c’è stata una svolta per me. Mentre vedevo tutti i miei colleghi indagare su tematiche legatissime al presente, non riuscivo a smettere di pensare al passato e ad immaginarmi il futuro. Questo non credo sia disinteresse per ”l’oggi”, piuttosto un mettere sullo stesso piano tutte le tematiche universali, allo stesso modo. Vedere l’umanità ripetere gli stessi errori è un dolore. La domanda è dove…? (lo spazio). Quando…? (il tempo)».

All’interno di tutti i tuoi lavori la riflessione sullo spazio e il tempo mi sembra sia centrale. Intercettando i meccanismi di alterazione, dilatazione e ingerenza tra queste due categorie, spesso le tue opere interagiscono con il tempo e lo spazio dei riguardanti. Come si inserisce la nuova serie di opere che hai realizzato per il MuMe all’interno della tua ricerca?
«In fase di progettazione dei miei lavori, cerco sempre di avere la mente libera ma di tenere dei paletti fissi. Ad esempio, la forma deve avere un bilanciamento con la sostanza. Ovvero la cura per i materiali, i disegni, il processo realizzativo deve combaciare con la dedizione alla ricerca di una narrativa e di un forte concetto alla base. Non so se inizia prima la forma o il concetto, ma una delle cose più interessanti che ho studiato all’università durante un esame di estetica è proprio il legame inscindibile tra forma e sostanza. E in generale, tra il bianco e il nero, tra gli opposti. Le mie opere non vogliono avere un concetto che supera la forma. Non ha senso per me dare più importanza ad una cosa piuttosto che a un’altra. È la totalità che conta. Tutto questo sento abbia la necessità di essere collocato in un luogo con il quale si instaura un dialogo. La maggior parte delle mostre che ho realizzato non sono in gallerie d’arte ma in luoghi, in spazi. Chiese, dimore antiche, luoghi industriali, dismessi o da riscoprire. Forse è il luogo stesso che ha influenzato l’installazione, sicuramente l’allestimento. O forse, non poteva esistere quell’installazione al di fuori di quel luogo. Era tutto come già scritto. Il tempo e lo spazio sono due termini universali. Penso che tutti gli artisti, in generale, ragionino su di essi. Non si può ragionare su qualcosa che non tenga conto dello spazio e del tempo, perché sarebbe qualcosa di inesistente, di non ragionabile. Qualsiasi avanguardia o corrente che rompeva gli schemi, qualsiasi onda nichilista e violenta, pacifica e bella. Tutto teneva e tutto terrà conto di questo. Questa nuova installazione presso il Museo MuMe enfatizza tutto ciò in forte dialogo con il passato. La collezione del Museo tratta archeologia, arte antica e moderna. È una perla per tutto il Mediterraneo, custodendo tesori del passato ritrovati anche dopo il tragico terremoto della città di Messina. Tutto è stato raccolto in questo enorme contenitore di cemento antisismico che impera brutale davanti al mare. Un luogo che ad immaginarlo si farebbe fatica, dalla bellezza e l’unicità che lo contraddistinguono. È proprio quando ci proiettiamo verso gli orizzonti, l’oltre, che in qualche modo ritroviamo noi stessi. È studiando le stelle che capiamo l’atomo, e viceversa. Tendere verso tematiche universali è un modo per conciliare il macro con il micro. Per riconciliare noi stessi con il tutto. È per me la base dell’esistenza, tutto il resto è altresì interessante, ma viene successivamente».

Mi sembra che per attuare questi meccanismi di detournement e interazione con lo spettatore i tuoi lavori finora non si siano mai serviti di meccanismi tecnologici, elettronici. Penso ad esempio all’installazione site-specific che hai realizzato all’inizio di quest’anno per il museo MEC di Palermo o a Prelude, presentato durante Manifesta: in entrambi i casi si trattava di meccanismi percettivi della visione ad occhio nudo. Nel caso di Fragments invece lo spettatore era costretto a farsi strada all’interno della mostra e a fruire le opere adoperando la luce del proprio smartphone. In XYZST (spacetime) invece il meccanismo di distorsione è incorporato nell’opera e meccanizzato. Puoi parlarci di questo aspetto innovativo nel tuo lavoro, dei nuovi materiali che hai impiegato per la realizzazione del suo funzionamento?
«È sempre l’utente che fa partire il meccanismo. Se per Fragments lo spettatore doveva accendere una luce di uno smartphone, ora deve passare davanti i totem a specchio per attivare il gioco percettivo. Infatti, è attraverso fotocellule che i movimenti delle distorsioni degli specchi si attivano. L’utente e la mostra sono la stessa cosa. Si devono fondere. L’interazione è regina. È questo quello che per me è importante. Non importa invece se sia un circuito elettrico, uno smartphone, una sorgente di luce o Arduino, come in questo caso, o AI (intelligenza artificiale) in futuro. Finora tutti i lavori sono stati realizzati con materiali molto semplici. È l’assemblamento, l’insieme che fa sì che si crei uno stupore. Mi affascina l’impiego di materiali anche comuni ma trattati con un diverso punto di vista. Ad esempio, stratificare una struttura di vetro e inserire lastre all’interno, senza alcun tipo di telaio e illuminare sezioni dedicate. Oppure appoggiare dei vetri spezzati sul fronte dei quadri creando modularità e connessioni. Prendere piccole luci ma molto potenti da poter creare ombre molto nitide nella sala. Nuvole di fumo che fanno sparire fili nel nulla. Come posso realizzare un buco nero? Ti siedi, e inizi a pensare a un modo per far sì che la scienza diventi forma. Specchi racchiusi in grandi strutture in metallo che ”a tradimento” distorcono la realtà circostante. Tornando poi allo stato iniziale».

All’interno della Sala in cui sei stato invitato ad intervenire si trovano delle grandi tele di Caravaggio. Come hai deciso di relazionarti a questo spazio con un’identità storico artistica così forte? Hai pensato al tuo intervento in relazione a questa presenza e se sì, come?
«Non si può pensare di entrare in quella sala e non relazionarsi ad essa. Ho avuto l’opportunità di presentare un progetto al MuMe che per la prima volta faceva entrare l’arte contemporanea all’interno del Museo. Ma non mi sento di aver portato delle opere in senso lato, come dei quadri. Io ho pensato a tradurre in forma tridimensionale, in un’installazione, delle teorie scientifiche. Questa serie mi sembrava adatta. Non potevo inserire null’altro. Dei buchi neri. Caravaggio utilizza un alfabeto troppo alto per instaurare un vero dialogo con l’Arte Contemporanea. È una blasfemia pensare di avere ”un dialogo” con Caravaggio, opera – opera. Ma questi sono totem che hanno un alfabeto talmente diverso che credevo potesse funzionare. L’intento è anzi di elevare le grandi tele del Caravaggio, elevare quindi anche il passato. Un modo per vederle sotto un’angolazione diversa. Soprattutto, un modo per ragionare sul flusso continuo della realtà e del tempo. Lo stupore all’ingresso della sala è legato alle enormi tele. Ma continuando a camminare, ci sono punti nella sala in cui l’utente riflette la propria immagine sugli specchi con i dipinti stessi, fondendosi insieme. Il passato incontra il presente. Il futuro non c’è. Ma c’è. Già lì, pronto per essere preso. Relazionarsi con gli spazi è per me questo. Riflettere su come creare qualcosa che diventi organico, unico. Un tutt’uno. La via opposta a chi invece cerca di creare un dialogo attraverso la rottura, la provocazione. La mia non è provocazione. Il mio intento è cercare di unire le dimensioni del tempo».

Nel 2018 durante Manifesta 12 con Duskmann hai presentato il progetto Prelude all’interno della Chiesa della Madonna della Mazza e hai deciso di trasferirti a Palermo. La Sicilia e, in particolare, la vivacità culturale in crescita in una città come Palermo in che modo hanno influenzato il tuo lavoro e il tuo immaginario? Ti senti parte attiva della città e della comunità che la anima? Dove si situa e in che direzione sta andando la città sul fronte della cultura e dell’arte contemporanea? 
«Dovevo stare a Palermo due settimane per l’allestimento della mostra. Sono qui da due anni. Palermo è il fulcro del Mediterraneo, storicamente porto per culture differenti tra loro, di interazione culturale. Strati infiniti raccontano una città che porta arcobaleni architettonici nel suo tessuto urbano e usanze antiche che si mescolano tra loro, tra cui il dialetto, la cucina. Tutto. Stili che si uniscono sono per me una enorme fonte di ispirazione. Firenze, dove ho vissuto per quattro anni, è una città’ che può essere considerata pura. Palermo non è pura. Il suo immenso bagaglio storico-culturale si tramanda e cambia da secoli. Dai Fenici in poi, tutto è conservato a Palermo e in Sicilia con le sue unicità che si fondono tra loro. La Sicilia è una terra magnifica che non smetto mai di scoprire. Bastano poche ore di macchina e ci si trova in luoghi potentissimi, che forse solo Roma, la mia città natale nella quale sono cresciuto, mi ha dato in questa sua completezza. Questo ha decisamente fortificato il mio immaginario. Sono cresciuto con un senso del passato molto forte. Con un grande rispetto dell’arte antica, con la sensibilità di percepire tutto questo e di tentare di renderlo contemporaneo senza affogarci e morire. Senza nemmeno rigettarlo. Palermo e la Sicilia sono il mio luogo ideale per creare, oggi. In più, ho trovato una città molto viva culturalmente. Dove sicuramente c’è anche spazio per costruire qualcosa. Nuovi studi d’arte stanno aprendo, concorsi e progetti di arte stanno per essere lanciati. E non mi sento semplicemente di vivere a Palermo. Ma sento di essere stato adottato dalla Sicilia in quel senso antico di sua curiosità verso ”lo straniero”. Sento uno scambio tra me e i suoi abitanti, e questo già mi basta. Penso che chi gode oggi a Palermo è qualcuno che viene da fuori e non la conosceva prima. Ma anche chi invece da Palermo è andato via anni fa per fare esperienza all’estero e poi ha deciso di tornarci, come molti miei amici. Ho notato invece che chi non si è mai allontanato da Palermo ha il dente avvelenato con tutto ciò che la città rappresenta. Di certo non è il paradiso terrestre, ha ovviamente dei lati positivi e dei lati negativi. Ma io al momento ancora non sento confini tra Palermo e il resto del mondo».

La mostra è visitabile fino al 12 settembre al MuMe
Museo Regionale di Messina, Viale della Libertà 465 – Messina
Info: http://www.regione.sicilia.it