Capovolgere la realtà, così il muro diventa una nave e il cielo il mare

Davide Dormino e la scultura. Perché la scultura è la sua pratica. Una pratica attraverso la quale Davide crea strutture, idee, cose, per dare concretezza alle sue immaginazioni. Come immagina un pensiero? Come immagina qualcos’altro? Ecco, la sua attività prova a rispondere a queste domande. E il suo è un fare anche politico. Una specifica volontà di dare forma a quello che pensa e, più nel particolare, a come pensa il mondo.

Immagini e poi crei. Oppure, suppongo, immagini come potrebbero essere le cose che realizzi anche mentre le stai creando; così cambi, modelli, rielabori durante la fase di realizzazione che è sempre sorprendente e manipolabile fino ad un certo punto. Sì, credo proprio sia così anche per te. Per quanto la tua ricerca sembri razionale, focalizzata, precisa, sia per i materiali, sia per i temi che tratti, in realtà io credo che, proprio nella fase di produzione, tu ti lasci un po’ andare per vedere che succede. Ti concedi un po’ di irrazionale. Ecco! Scultura e disegno. Separate o insieme. E, alle volte, le forme finali delle tue ”cose” sono forme addirittura nuove, come se non volessi limitare la tua ricerca ad una ricerca grazie alla quale rappresenti quello che conosci, intendendola invece come una fase fluida e in continua trasformazione. Una fase a cui dai molta importanza ed è proprio per questo, credo, che utilizzi spesso materiali  ”presenti” come il marmo, il bronzo, il ferro lavorando ad opere ambientali che posizioni quasi sempre in spazi aperti, pubblici, visibili, fruibili, opere che si inseriscono con tutto il loro peso in uno spazio e parlano mute ai passanti. Si impongono. Penso ad un tuo lavoro recente, Poltergeist_monumento all’invisibile, di quest’anno appunto, che ripete serialmente un chiodo, un elemento iconico per te (per cui ti aprirò una specifica riflessione più avanti).

Essere artisti oggi, come ieri, è ridisegnare la realtà e provare a correggerla. Essere uno scultore significa trasformare la materia perché la forma è contenuto e la materia che si utilizza è il concetto stesso dell’opera. La scultura, insieme alla poesia, è l’unica disciplina che si fa per sottrazione e l’artista che utilizza questa pratica non può ”narrare” può soltanto ”dire”. Da qui nasce la mia ricerca, creare strutture di sostegno, ideali, fisiche o immaginarie per rappresentare la resistenza al carico, cercando di conferire leggerezza alla lotta contro ogni forma di peso. Mi attrae quello che c’è dentro, quello che ci sostiene. Quando inizio parto sempre dal disegno, non conosco la traiettoria che seguirò, lotto contro il mio istinto, lo governo, lo sguinzaglio perché bisogna essere visionari per essere concreti e, molto spesso, una volta arrivato alla soluzione finale, quel rebus si codifica e capisco da dove sono partito. A volte è l’occasione a generare un’opera ma è anche l’opera che genera l’occasione e questo passa sempre per l’ascolto dei luoghi. Non credo di essere un artista riconoscibile poiché ogni mio lavoro è una finestra che si apre su un nuovo scenario. Sono altresì convinto che se realizzo un chiodo, una vertebra o un ritratto i processi e la pelle della materia sono gli stessi. In questi anni ho realizzato diversi monumenti: alla libertà di espressione Anything to say?, all’immaginazione; Naviganti, all’invisibile; Poltergeist al pensiero. Credo nell’arte ambientale e in quella pubblica perché la scultura nasce per stare fuori e perché l’arte dovrebbe essere tutta pubblica.

I tuoi lavori, lo dicevo, invadono, passami il termine, lo spazio. Se ne impossessano. Lo vediamo in Naviganti (2017) che hai appena citato.  Un’opera che è inserita in uno specifico contesto, come il Pigneto, che accoglie, abbraccia – per la sua natura multiculturale – l’installazione e il suo pensiero. Quindi, quando dico che i tuoi lavori s’impongono non lo dico negativamente ma forzo un po’ il vocabolario per dare potenza al gesto, al posizionamento dei lavori appunto. Anche perché le mura sulle quali è installata l’opera sono le mura di una cooperativa, struttura che ha, tra i suoi valori, la solidarietà, motivo per il quale, tutta l’installazione s’impone assolutamente con diritto lì dov’è. Un’opera anche ricca di simboli, di poesia. Sembra qualcosa ma rimanda anche ad altro, in piena linea con tutta la tua produzione che racconta temi forti, temi legati alla storia. Temi che rimangono nello scorrere del tempo. Pensiero. Opere che, come mi piace pensare, compongono una tua storiografia attraverso l’arte. Nuovi immaginari, sì muti ma di grande impatto. Perché? Quando hai iniziato e come?

Ho lo studio al Pigneto, un quartiere bellissimo di Roma dove c’è una piazzetta meravigliosa, Piazza Copernico. La Cooperativa Termini insieme a Sono Frankie, un collettivo di creativi che gestisce gli spazi, mi chiedono nel 2017 di pensare ad un’opera temporanea da collocare sul muro della piazza. Ho sempre pensato che i muri dovessero essere abbattuti ma non potendolo fare in questo caso ho pensato di spostarlo simbolicamente. Osservando la struttura con un cielo ampissimo sullo sfondo, notai che il muro aveva una forma simile ad una nave. Così ho creato 7 remi di ferro alti 5 metri con le palle rivolte verso l’alto ancorati al muro. Ho capovolto la realtà, il muro è diventato una nave e il cielo il mare. Il viaggio, l’abbattimento dei confini fisici e ideali perché è proprio navigando che possiamo scoprire chi siamo noi e chi sono gli altri. Ho scoperto solo successivamente che le vie adiacenti alla piazza erano dedicate a geografi e cartografi. A volte l’arte pubblica viene imposta agli abitanti; personalmente ho sempre creduto invece nella temporaneità delle cose. Naviganti doveva rimanere sei mesi ma alla fine gli abitanti del quartiere hanno voluto fortemente che l’opera rimanesse permanente.

Anything to say?, raccontami come è nato questo lavoro. E, data la sua natura itinerante, se c’è stata una città in cui hai sentito, più delle altre, i suoi effetti. Poi, quello che mi piacerebbe sentire, in particolare a proposito del processo produttivo, è qualcosa di intimo, di personale; quello che vuoi esternare qui, ovviamente. Il processo è la fase della creazione artistica che mi interessa più di tutto il resto. Come nasce qualcosa, come viviamo questa cosa una volta che è realizzata, quali sensazioni ci restituisce a seconda dei contesti. Le riflessioni che ci pone. Quanto e quando ci sorprende, se ci sorprende. Come arriva e in che misura, anche qui, ammesso che arrivi.

Era il 2013 dialogavo con un amico scrittore giornalista americano Charles Glass. Si parlava delle vicende di WikiLeaks e dei limiti e delle pressioni che subiscono molti giornalisti che affrontano argomenti scomodi ma, più nello specifico, si parlava di libertà di pensiero e di espressione. Un tema che ci riguarda tutti, e mi aveva turbato la storia di Julian Assange, Edward Snowden e Chelsea Manning, i più iconici whistleblowers della storia contemporanea, capaci, attraverso le loro rivelazioni, di smascherare i governi più potenti del mondo, pagando a loro volta un prezzo altissimo per il loro atto di coraggio. Non ho mai avuto dubbi nel credere che questi tre signori fossero tre eroi contemporanei. Volevo celebrare loro gesta e provare a fare qualcosa che risvegliasse le coscienze di chi non sa o che non ha il coraggio di voler sapere. Avevo la testa vuota, il pensiero di formalizzare qualcosa con rischio di essere didascalico, retorico mi terrorizzava. Era ossessionato, cercavo ovunque qualcosa che potesse aiutarmi, spunti, parole a cui aggrapparmi, ma niente mi giungeva in soccorso. Poi, una mattina molto presto, in moto sulla tangenziale est ho avuto una folgorazione. Mi fermai a disegnare molto velocemente ciò che avevo visualizzato. In quel preciso istante ebbi la netta sensazione che fossi sulla strada giusta. Lasciai il foglietto in tasca per alcuni giorni facendo finta di niente, poi una sera lo impugnai e iniziai a interrogarmi sul senso di quello schizzo. Nel disegno c’erano tre figure in piedi su tre sedie, mi chiesi perché e immaginai di intervistarmi per sciogliere i dubbi e giungere ad una consapevolezza. Mi risposi per prima cosa che le persone che nella vita spostano flussi di pensiero non si siedono mai. Stanno in piedi, si espongono per prendere una posizione. Mancava qualcosa però, qualcosa che coinvolgesse attivamente le persone, il pezzo mancante che ogni opera d’arte dovrebbe avere. Aggiunsi, così, la quarta sedia vuota al loro fianco. A quel punto, il progetto c’era! Adesso iniziava il difficile ma in questi anni ho imparato che, se hai un ”perché” trovi anche il ”come”. L’opera doveva essere un monumento diverso da quelli presenti nelle piazze del mondo dedicati agli eroi di ogni epoca, non doveva avere un piedistallo e quindi una distanza dalle persone e doveva comunque essere comprensibile. Decisi di utilizzare il bronzo, istituzionale, indistruttibile, pesante, con l’idea di rendere il gruppo scultoreo itinerante e farlo viaggiare in tutte le piazze d’Europa e del mondo! Perché il messaggio universale di cui si faceva carico l’opera fosse di tutti. Le figure dovevano essere a dimensione umana perché Assange, Snowden e Manning sono reali. Dovevano indossare tute e scarponi come fossero parte di un corpo scelto ma anche ”prigionieri”. Metà del mondo li considera traditori, un’altra eroi, e l’opera doveva celebrare il coraggio ma sembrare anche come una pubblica esecuzione. Sapevo che avrei toccato un argomento delicato e che questo avrebbe suscitato discussioni e polemiche. Iniziai a cercare fondi per produrre l’opera, servivano 70.000 euro per la fusione in bronzo. Lavorai due anni ininterrottamente, tralasciando tutto il resto, coinvolsi persone che non smetterò di ringraziare per il supporto, cercando parole per raccontare il progetto senza avere la certezza che questo avrebbe avuto una sua vita. Il sistema dell’arte non mi aiutò e capii che stavo facendo qualcosa che usciva da certe dinamiche elitarie e che Anything to say? è un’opera per tutti, e compresi che ero un artista indipendente. Feci sei mesi di crowdfunding internazionale in cui raccolsi 30.000 sterline ma mancavano ancora tanti soldi e, soprattutto, non avevo nemmeno iniziato a realizzare il modello di argilla. Poi trovai, grazie a due persone illuminate, i  50.000 euro mancanti,  andai a Londra ad incontrare Assange, e venni invitato al Barbican per un conferenza internazionale a presentare il progetto; ebbi il supporto di tante organizzazioni tra cui Reporter sans Frontieres. Il 1º Maggio del 2015 l’opera giunse ad Alexanderplatz a Berlino, alle 12:30, di fronte alla scultura c’era tutta la stampa mondiale e chi passava da lì sapeva esattamente cosa fare: salire sulla sedia vuota e cambiare punto di vista. Il resto è venuto da solo ma davvero con un gran lavoro. Ad oggi, l’opera ha sostato in 13 città europee da Parigi a Ginevra, Strasburgo, Dresda, Belgrado e Roma. Anything to say? è sicuramente, tra le opere che ho realizzato, quella che ha avuto un grandissimo riscontro mediatico, coinvolgendo molte persone, motivo per il quale ad oggi continua il suo viaggio inarrestabile

Bene. L’opera che non hai ancora fatto e che vorresti realizzare, esiste? I tuoi lavori sono tutti articolazioni, come se nella tua pratica elaborassi una specie di corpus composto da diverse parti all’interno di uno stesso contenitore. Non è un caso, infatti, che ad un certo punto tu abbia pensato ad un progetto come Arca Collective che ci racconta di un corpo di cui il contenitore è tuo ma le parti di altri. Un’opera che segna un punto nella tua pratica, come se ti fermassi un attimo per raccogliere elementi esterni; così l’idea di invitare altri artisti nella creazione delle singole componenti interne. Per me Arca è un po’ una tua particolare messa al ”chiodo”, in senso positivo, un’affermazione in cui utilizzo volutamente un elemento, il chiodo, che fa parte del tuo linguaggio espressivo, del tuo visivo. Lo anticipavo all’inizio. Un elemento seriale. Un elemento che utilizzi sciolto dalle sue funzioni che, talvolta, esprime un concetto ed altre volte un altro. Una metafora che racconta di equilibrio e di sbilanciamento. E sì, anche qui mi ritorna in mente Poltergeist.

È vero, lo scheletro delle cose, la struttura portante degli elementi o se vogliamo l’anima fisica e ciò su cui il mio processo creativo trova l’azione. Gli ultimi progetti a cui ho lavorato, e su cui sto lavorando, evidenziano questo mio interesse: Atlante, Poltergeist e Arca Collective. La prima, la scultura di marmo di Carrara di grandi dimensioni che verrà inaugurata il prossimo 12 ottobre nel Parco di Veio tra Formello di Campagnano – è un’opera ambientale permanente che raffigura una vertebra cervicale, quella che regge la testa e quindi il pensiero. Sarà possibile attraversarla come fosse una porta, un monumento al pensiero, anello di congiunzione perfetto per corpo e testa. Poi c’è Arca Collective che voglio realizzare nel 2020. Si tratta di un’opera collettiva che coinvolge 24 artisti del panorama italiano e internazionale e, come Anything to say?, sarà itinerante:  l’intento è quello di far sostare l’arca in tutte le città bagnate dal Mediterraneo. Un progetto ambizioso con una logistica notevole, visto che la struttura ossea che ho disegnato e che coglierà interventi degli artisti è lunga 16 metri larga 6 e alta 4: la chiglia di una nave ma anche una cassa toracica composta da 24 elementi denominati “costole” all’interno delle quali ogni artista interpreterà un organo del corpo umano. L’ideatrice è mia moglie Silvana con la quale, insieme ad altre figure professionali, stiamo lavorando giorno dopo giorno. Questo è sicuramente un progetto utopico, quello di riunire 24 artisti che, per natura si sa, sono battitori liberi ma l’intento è proprio questo: scardinare le dinamiche narcisistiche a favore di una collettività che prevede la coesistenza e l’inclusione. Infine Poltergeist, recentemente collocata nel parco scultura de La Serpara a Civitella d’Agliano in provincia di Viterbo. Per me, la scultura nasce per stare fuori e la relazione con i luoghi è determinante. Così, quando venni invitato da Marco Trulli a pensare ad un intervento non ebbi alcun dubbio, Volevo realizzare un’opera verticale, alta, altissima, un vettore, qualcosa che collegasse il cielo alla terra. Poltergeist è una struttura composta da sette chiodi di ferro, uno sull’altro, in dimensione decrescente che accentua la prospettiva come fosse la colonna infinta di Brancusi: l’opera è alta 12 metri ed è in acciaio Cor-Ten, e rappresenta la visualizzazione di un passaggio di energia perché il chiodo non serve a niente se non a tenere insieme gli elementi…

Sculture in spazi ma anche ”sul muro”, ne abbiamo parlato. Ma qui, in particolare, vorrei approfondire Unconcrete (2017), un’opera composta da pezzi presi dalla storia che il tempo ha trasformato. Un’opera in cui la dimensione reale e quella poetica si mescolano. Un nuovo racconto. Un nuovo punto di vista, se immaginiamo il luogo da cui arrivano le parti che lo compongono, un bunker, e se proviamo ad immaginare anche come hanno vissuto, gli stessi, prima che la ruggine li corrodesse, ruggine che, in parte, hai poi ricollocato all’interno di un’urna posizionata al centro dell’installazione, come a volerle salutare, queste parti, per un’ultima volta costruendo una sorta di monumento funerario. Tutto però è immaginifico, è da immaginare. E scommetto che in tanti, osservandola, abbiano pensato a cose diverse. In questo momento, per esempio, mi chiedo quanti hanno avuto la mia stessa immaginazione. Qual è la tua e come hai preso la mia. E mi vengono anche altre considerazioni, come quella sul titolo dell’opera che può voler dire allo stesso tempo, se giochiamo sul termine, ”non concreto” ma anche ”non fatto di cemento”, un materiale, pesante, presente, duraturo, come se questi oggetti fossero stati volutamente destinati, a causa del loro materiale, a perire, giorno dopo giorno.

Partiamo dal titolo, Unconcrete è in realtà una parola che non esiste. Subito si pensa a ”in-concreto”, immateriale ma ”concrete” in inglese significa, come accennavi, cemento. Quando recuperai nel 2012 i 33 ferri arrugginiti sul litorale laziale, nello specifico a Tarquinia, mi ricordai che da bambino sulla spiaggia c’erano alcune strutture di cemento, piccole fortezze, risalenti alla seconda guerra mondiale, bunker appunto. Il tempo e il mare avevano eroso quel rifugio impenetrabile, lasciandone scoperta l’anima. Lasciai decantare i ferri nel mio studio per cinque anni fin quando arrivò l’occasione di una mostra ”sulla fragilità”. Li archiviai al muro dello spazio espositivo, ponendo al centro un crogiolo che raccoglieva la ruggine che si era staccata dai ferri. Ne uscì fuori un bunker decostruito in cui i ferri organici e arrugginiti creavano una sorta di alfabeto criptico. Una massima protezione, un atto di forza, che rivelava tutta la sua fragilità. Tutta.

https://davidedormino.com/