Tour Paris 13, creativi e creatori

Forse ne avete sentito parlare, un palazzo di Parigi di nove piani destinato alla demolizione è stato interamente dipinto da street artist di tutto il mondo. È stato aperto al pubblico il primo ottobre e sarà visitabile per trenta giorni. Poi verrà chiuso, un’impresa inizierà a smantellare l’edificio e quando resterà solo il cemento armato piazzeranno delle cariche di C4 e le faranno esplodere. L’edificio crollerà, ci saranno polvere e macerie. L’edificio è conosciuto come la tour Paris 13, la torre Parigi 13 e si chiama così perché si trova nel tredicesimo arrondissement di Parigi, a sud. Ho immaginato il momento del crollo mentre visitavo la torre in questi giorni e l’emozione mi ha sopraffatto, poi però è stato un sorriso ad accogliere l’idea che per distruggere tanta meraviglia servirà la potenza detonante di un missile Tomahawk. Ma torniamo indietro con le immagini, rimettiamo in piedi la torre e arriviamo a me che scendo alla fermata quai de la gare della linea 6 del metrò di Parigi. Superato un isolato mi trovo davanti la torre, c’è un’atmosfera febbrile intorno allo stabile, curiosi, giornalisti, artisti, e ragazzi che dipingono furiosamente i muri all’esterno dell’edificio, ogni paio d’ore il lavoro di un’artista viene “crossato”, così si dice in gergo, sì insomma arriva qualcun’altro che ci dipinge sopra, arte su arte, su arte, su arte. La street art è violenta. È questo che si percepisce.

La torre vista da fuori é una vittima indifesa di quel teppismo iconografico a cui fa cenno Achille Bonito Oliva in una recente intervista sul graffitismo italiano. Graffiti e street art sono ovunque all’esterno della torre ma sono i graffiti a dominare, teppismo iconografico, esatto perché i graffiti non sono frutto di un gesto artistico, sono un gesto vandalico. Sono violenti, ossessivi, compulsivi e infestanti e prendono letteralmente a sberle i segni, le forme, le figure e i colori lasciati dagli street artist, ne annullano l’effetto evocativo, la pulsione artistica, seminando caos. Uno scenario metropolitano banale, già visto, già fatto. Bisogna girare dietro la torre per entrare, capannelli di gente, troupe televisive da mezzo mondo, tutti asserragliati intorno a una piccola scala. La security che dice no a tutti. Io conosco Mehdi, l’uomo che ha voluto, finanziato e fatto tutto questo e conosco anche Gael, il custode che ha assistito tutti gli artisti e ha curato la torre come fosse la sua casa. Mi fanno passare, sono dentro. Nove piani più le cantine, 104 artisti da ogni parte del pianeta, nove mesi di lavoro, ingresso gratuito. Dal primo ottobre si entra in cinquanta alla volta tutti i giorni dalle 12 alle 20. Scale, pianerottoli e appartamenti, ogni artista una stanza, libertà espressiva totale. Niente curatori, nessun dispositivo critico.

Eccola l’arte di strada senza guinzaglio e museruola che occupa la casa borghese e ne utilizza il relitto come supporto per i suoi linguaggi. Le case degli altri, le vite degli altri coinvolte in un’intifada culturale contro il lusso signorile nei cui salotti, per troppo tempo l’arte ha trovato la sua collocazione. È ovunque, in ogni angolo, ogni anfratto. Se sei abituato al White Cube probabilmente qui ti verrà da vomitare, la torre è un’opera totalizzante in cui l’unica forma di respiro concessa è l’apnea. La visita è faticosa, l’opera è mastodontica. La street art è un’ambiente di enorme creatività con una forte attitudine relazionale, si fa sui muri ma si espone online dove è diventata il movimento artistico più seguito della storia dell’arte. Alla faccia di quanti la relegavano a un destino da pubblico istantaneo che la incrocia tornando a casa dalla spesa. Qui è anche più facile distinguere i creativi dai creatori, i primi vi strapperanno un sorriso, i secondi vi colpiranno più duro. Vi colpirà la comprensibilità dei lavori, la loro capacità di testimoniare il presente.

Qualcuno definisce la street art un’avanguardia, è falso, le avanguardie annunciano il futuro, la street art fissa il presente perché è fatta da quelle generazioni a cui il futuro è stato reso indisponibile  ed è proprio la natura effimera del presente che questa impresa incredibile mutua nella sua consapevolezza autodistruttiva. L’artista abita le circostanze che il presente gli offre al fine di trasformare il contesto della sua vita in un universo durevole: anche Michel de Certeau, gesuita e autore di questa analisi, si ricrederebbe entrando nella torre. La tour Paris 13 è il resoconto di un’utopia disponibile e il suo valore artistico lo capiremo più avanti. Bravo Mehdi, lo avevi detto e l’hai fatto. Mi avvio verso il metrò senza voltarmi indietro. Il missile Tomahawk è già in viaggio e si abbatterà sulla torre il 30 novembre. Come dice Nicolas Burriaud, nel secolo scorso l’arte si è sobbarcata il compito di annunciare un mondo futuro, oggi elabora universi possibili. Un’altra torre crollerà, un’immagine che la memoria elabora con due numeri: 11 e 9. Chissà se questa volta, su queste macerie, sapremo ricostruire un universo possibile.

Vedi la gallery. Info: www.itinerrance.fr