Vanitas

In apertura presso la Interazioni art gallery di piazza Mattei, la personale di Emiliano Manari Vanitas curata da Sarah Palermo. L’esposizione propone una riflessione sulla vacuità della vita spesso contaminata da elementi superficiali che distolgono dall’essenza autentica delle cose. Ancora un omaggio al senso effimero della bellezza tipico della vita terrena, un’indagine sull’estetica di un ideale, la Vanitas, che al tempo stesso diviene concetto e immagine. Attraverso la storia dell’arte, si dirama il lungo sentiero che proviene dalla sontuosità dei materiali e delle stoffe richiesti dai maggiori cultori del bello, quali i committenti seicenteschi, all’essenzialità del contemporaneo, dove la bellezza, ormai privata della profondità dell’estetica, si trasforma in ossessione, unica ragion d’essere di molte caduche esistenze. L’importanza del ritratto, tipica dell’iconografia del passato, si traduce oggi nella tormentata rincorsa a farsi ritrarre, per poi mostrarsi e ostentarsi. San Girolamo portatore del concetto di Vanitas nel mondo latino, inteso come invito a vivere il presente nel migliore dei modi, afferrando l’essenza assoluta che essa ci possa offrire, è stato di certo frainteso dall’accezione contemporanea di una Vanitas al servizio del lusso e della finzione.

Si è dinanzi a un momento storico che ha stravolto l’immaginario della Vanitas, volti di donne e uomini di successo tendono a sostituire l’opulenza naturalistica barocca, le ricchezze e i fasti di una dimenticata estetica. Le opere di Manari vogliono far riscoprire il fascino dello sguardo femminile attraverso l’accattivante luccichio dei broccati, rigorosamente cuciti e assemblati dalla madre dell’artista. Al pittore francese del XVII secolo Philippe de Champaigne, è dedicata l’opera Vanitas, dove l’artista, ha sostituito una rosa a un tulipano, emblema della vita nella cultura olandese, nonché metafora della clessidra e del teschio, entrambe note allegorie dell’inesorabilità del tempo. C’è da dire che oggi per trovare nel macabro un alto potenziale estetico, non occorre più andare a Napoli nella chiesa delle Capuzelle, né all’ossario di via Veneto a Roma, da quando il teschio funge da feticcio glamour della società attuale. Era il 2007, quando fu presentato For the love of god, il teschio da oltre mille carati, valutato per ben 100 milioni di dollari, opera della star inglese Damien Hirst.

Da quel momento stilisti, designer e artisti se ne servono per la realizzazione di esosi oggetti. In realtà a Venezia, Codognato fa anelli con i teschi sin dal 1500 e nel tempio londinese della gioielleria rock, The great frog a carnaby street, si trovano i più pesanti anelli pieni di crani, così come li comprava Keith Richards; nulla togliere alle storiche sciarpe di Alexander Mc Queen, dominate da scatole craniche di diversi colori. Guardando a questa tendenza, sempre più banalmente diffusa tanto nella moda quanto nell’arte, gli inflazionatissimi teschi divengono nuovi totem della vanità, dipinti, disegnati, sagomati, scolpiti, modellati, assemblati, ceramici, verniciati, lucidi, incrostati di polvere di diamante o di pastina, serigrafati, fotografati. Dal Ritratto d’uomo di Andrea Previtali, del 1502, che porta sul retro la scritta Memento mori, ricordando la certezza della morte, all’ Allegoria della vanità di Giulio Campi, in cui una coppia riccamente abbigliata legge uno spartito musicale, ma è disturbata dalla presenza di un teschio al di sotto del tavolo, al San Gerolamo col teschio nel deserto, di Bernardino Luini, si passa alle odierne provocazioni che rivalorizzano l’estetica escatologica, spesso banalizzandola, proponendo teschi poliedrici, soccerskulls, poveristi, street, fotorealistici, psichedelici, cartoon, a 3 dimensioni. Morte dell’arte contemporanea o patetico tentativo di edonizzazione della morte?

fino al 22 settembre

Interazioni art gallery, piazza Mattei 14, Roma

info: 06.68892751

Articoli correlati