L’erotismo di Anita Calà

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Sabato 27 Settembre a Roma Fluffer Magazine presenta al pubblico RedHead, un progetto fotografico di Anita Calà, con una mostra aperta solo per un giorno e naturalmente un numero speciale della rivista. Inserita nell’atmosfera non convenzionale del festival itinerante Bizzarro Festival 2014, la mostra RedHead sarà allestita in una abitazione privata del quartiere San Lorenzo aperta al pubblico per l’occasione (per sapere dove, andate qui e fatevi consegnare la mappa). Ce ne parla Anita Calà in questa intervista di Fluffer, con alcuni scatti in anteprima per Insideart.

Come è nata l’idea di RedHead?
«Il primo input mi è arrivato quando ho visto per la prima volta il film La pianista di Michael Haneke.Sono stata folgorata dalla protagonista Isabelle Huppert, dalla sua interpretazione, dalla sua solitudine, dal suo rapportarsi al piacere che devia al dolore. Un racconto d’amore malato. Sono sempre stata attratta da tutto ciò che è brutto, sporco e cattivo, ma celato da una parvenza di eleganza».

Lavori con diversi linguaggi e media, dove si colloca questo progetto nel tuo percorso da artista?
«Ogni lavoro che realizzo è solo una spinta a continuare la mia ricerca, lo uso come prova generale per il successivo. Questo mi porta a sperimentare sempre nuovi linguaggi e a non soffermarmi mai sullo stesso piano, anche se poi il messaggio nei miei lavori è sempre lo stesso, cerco ossessivamente un metodo sempre diverso per farlo capire, a volte in maniera subliminale altre volte più esplicitamente».

So che conoscevi Jane Alexander già da tempo. È stato più il personaggio a ispirarti il progetto o l’idea del progetto a farti individuare la protagonista? «È nato in contemporanea. Tutti i miei progetti nascono da sogni. Mi sveglio la mattina con un’idea già composta nella testa, e anche in questo caso ho avuto da subito questa operazione artistica mentalmente già pronta e completa di protagonista. Non poteva che essere Jane, e quando le ho parlato di questo progetto, che non sarebbe stato solo una sessione fotografica ma un’esperienza destinata a coinvolgerla emotivamente, ha accettato immediatamente, ed entusiasticamente. Per me è basilare coinvolgere realmente chi entra a far parte di un’operazione artistica, lo scambio che ci deve essere è il vero lavoro, la realizzazione solo il punto che mette la fine».

Come mai hai deciso di pubblicare il lavoro con Fluffer, rivista di fotografia erotica contemporanea? «Il primo numero di Fluffer me lo ha fatto conoscere un mio carissimo amico e socio fotografo, e da subito ho pensato di proporre a questa giovane rivista il progetto Redhead, una bella sfida per me, visto che non mi ritengo una fotografa e tantomeno una fotografa di arte erotica. Come ho detto, cerco sempre nuovi modi per far arrivare il mio messaggio».

Cosa c’entra il dolore con l’erotismo? «Ho un’attrazione per tutto ciò che può unire due metà diverse e trovare il legame che le colleghi. In questo caso non è stato molto difficile, l’erotismo, e se vogliamo anche la pornografia con tutte le sue sfaccettature ed esagerazioni, può oscillare facilmente tra il piacere e il dolore materiale, carnale. Se vogliamo entrare nell’ambito filosofico-etico, a volte la morale creata dalla società fa vivere in maniera sbagliata alcune preferenze sessuali che ognuno di noi ha, ma che nasconde e quindi vive male, generando così un senso di colpa, una frustrazione interiore, una spaccatura che crea dolore».

Quando e come è iniziato il tuo percorso di artista? «Quando ho capito chi realmente volevo essere».

Cosa pensi della vicenda che ha coinvolto il video di Puppi e che ha visto l’intervento dei carabinieri al Macro perché considerato osceno? «Una divertente vicenda romana».

Possibile che l’arte possa essere ancora valutata con certi criteri? A te è mai capitato qualcosa di simile? «Decisamente sì, perchè sono fermamente convinta che l’arte non può essere di tutti. A me non è mai capitato o se è capitato non me ne sono mai resa conto. I miei lavori sono un po’ subdoli. Al primo sguardo possono sembrare ingannevolmente innocui!».

Hai mai esposto all’estero, e in quali occasioni (concorsi, workshop, collaborazioni)? «Ho avuto la fortuna di collaborare quasi da subito con professionisti seri che hanno creduto in me e quindi di poter portare il mio lavoro fuori dall’Italia. Ho partecipato con i miei video a collettive in musei e istituzioni importanti all’estero, come Mamba museo di arte moderna di Buenos Aires , Museo Tarii Crsurilor (Romania), Crane Art di Philadelphia, Mona di Detroit, Università di Toronto, e il Cact in Svizzera».

Guardando all’arte contemporanea, da chi ti senti maggiormente ispirata? «Mi piacciono molto gli artisti contemporanei che creano con le loro opere sensazioni di disagio o fastidio, che mettono in discussione le poche certezze che il genere umano pensa di avere. Ho una particolare passione per Edward Kienholz, Paul McCarthy, Miroslav Tichy, e qui mi ricollego alla mia attrazione per il brutto sporco e cattivo. Amo le video installazioni di Tony Oursler, la carnalità di Jenny Saville, la spocchiosità di Cattelan, la potenza di Anish Kapoor e Louise Bourgeois».

Cosa deve aspettarsi il visitatore dalla mostra Redhead? «Proverò a ricreare la sensazione intima che la protagonista può vivere nella sua casa. Lo spettatore dovrà entrare in punta di piedi senza far sentire la propria presenza, girando e interagendo con la perfomance che si terrà dal vivo. L’atmosfera voyeuristica, l’installazione video, il sonoro e la protagonista creeranno un percorso mutevole a seconda dello svolgimento e delle presenze. Il mio obiettivo è far uscire lo spettatore con la sensazione di avere non solo visto e spiato ma di essere stato partecipe di una condizione umana e non di una semplice mostra».

Per i dettagli della mostra cliccare qui.