Fino al 22 aprile, gli spazi di Galleria Brescia di Alessandro Novaglio e Simone Prestini ospitano Songs of Innocence and Experience, una collettiva che ha saputo convogliare alcuni dei talenti emergenti di una delle più prestigiose scuole d’arte al mondo. Parliamo del Royal College of Art di Londra, università fondata nel 1837 e prima al mondo per il decimo anno di fila nella categoria di Arte e Design della classifica stilata annualmente da QS World University Rankings. L’RCA, negli anni, ha visto formarsi nelle proprie aule alcuni tra i più tra i più famosi artisti al mondo come Tracey Emin, a cui Palazzo Strozzi dedica proprio in queste settimane la prima grande retrospettiva italiana, David Hockney, Henry Moore e Barbara Hepworth.
È stato proprio durante la mostra finale del Master in pittura del 2024 dell’RCA che la curatrice, Tatiana Yasinek, ha individuato una matrice comune nelle opere di Dannielle Hodson, Dina Jin Bae, Ana Monsó, Imi Williams e Charlotte Worthington.


Entrando negli spazi ampi e luminosi della galleria siamo accolti dalle sculture morbide di Charlotte Worthington (1957): imponenti tessuti cuciti a partire da bozzetti a carboncino in cui domina il collage di elementi figurativi. Imbottitura e taglio si compensano sulla seta delicata, con inserzioni di elementi in metallo e oro che proiettano ombre oblique creando vistosi rigonfiamenti vistosi e perturbanti. Allestite come fossero stendardi, le opere di Worthington, artista con un passato nel campo della sceneggiatura televisiva, esplorano in maniera onirica la dimensione del vissuto domestico nei suoi risvolti taciuti e contraddittori. La tensione è costante ed è sempre suscitata in risposta al tradizionale stereotipo per cui ciò che ci è familiare deve necessariamente essere anche rassicurante. Girato l’angolo, sul retro delle sete, i punti di innesto e di chiusura di ogni cucitura diventano il pretesto per la creazione di nuove narrazioni visive: fili e nastri disegnano costellazioni intervallate da pianeti di centrini, dando vita ad un universo interiore e frammentato che scorre parallelo a quello immediatamente visibile allo sguardo.


Ricordano e rimandano a una seconda pelle le texture terrose create da Dina Jin Bae (1988) con spugne, soffietti di silicone e pennelli da trucco, tamponando e illuminando la tela attraverso l’utilizzo di cosmetici scaduti. L’artista coreana, con un passato nell’industria della bellezza, riflette sulla dicotomia tra il vero sé e ciò che si sceglie di mostrare attraverso quelli che sono i piccoli rituali quotidiani a cui ci affidiamo nella ricerca di protezione da quell’inarrivabile standard che chiamiamo bellezza. Nelle opere in mostra l’arte del trucco, ritualizzata nel corso dei secoli, assume completa autonomia sulla tela: si intravedono maschere per il viso inglobate da strati di colore che le rendono a malapena visibili, ombretti brillantinati e fard dal finish luminoso.

Giocano sull’effetto Amarcord, e di un privato dejà-vu, le grandi tele di Ana Monsó (1998). Il processo creativo di Monsó è un processo lento e stratificato: i ricordi assumono il ruolo di innesco per una narrazione visiva che si espande come un denso ammasso di nebbia in cui si accavallano tratti inquieti, abbozzati e mutili. L’artista spagnola è solita partire da stralci di conversazioni avute con parenti e amici, che rievoca di getto su di un foglio. Da quel testo, poi, Monsó estrapola una frase che riporta sulla tela e, a partire da questa, inizia a dipingere. Il colore prende dunque il sopravvento sulla parola, la quale rimane sbiadita, talvolta quasi del tutto invisibile, sul fondo della tela. Il risultato, ottenuto grazie sia a stesure sia a rimozioni successive, resta indefinito e sospeso come accade con i ricordi.



Stratificati sono anche i piani narrativi popolati dai personaggi dipinti da Dannielle Hodson (1980): le figure sulle sue tele si compenetrano, si contraddicono e si mescolano, incapaci di assumere una fisionomia definitiva. La trasformazione è il motore delle vivacissime pitture dell’artista inglese che oscillando tra tradizione – per citare una delle sue fonti, la Deposizione del Pontormo – e innovazione, gioca nel mantenere i propri lavori sul costante filo dell’incompletezza e della mancata definizione. La rappresentazione di ciò che sembra umano, ammicca all’astrazione e, quella stessa astrazione, si fa poi sensazione fisica di attrazione e sgomento. Mani, piedi, volti rimaneggiati e riportati a uno stato di primordiale abbozzo e di tensione pullulano nell’opera di Hodson, evocando un immaginario infantile e circense, onirico e teatrale e a tratti perturbante.

Le brillanti tele di Imi Williams (1999) chiudono un percorso che si rivela circolare, non solo nel tracciato fisico. La giovane artista inglese porta avanti nella sua ricerca un intenso studio legato ai processi di costruzione del colore, svelato nelle sue diverse possibili declinazioni e sfumature attraverso progressive cancellazioni e sovrapposizioni di pennellate. Nella sua pratica i veli di colore di opacità differenti danno ogni volta vita a uno spazio immaginario altro, edificato sulla rovina della stratificazione precedente. L’utilizzo di colori traslucidi permette all’artista di decidere cosa nascondere e cosa lasciare visibile ad ogni livello, alternando colori ricchi e saturi che sembrano quasi graffiare la tela attraverso ampie e vigorose pennellate.


Nei lavori di tutte e cinque le artiste, figurazione sbiadita e astrazione corposa si rincorrono. Un utilizzo lirico, vibrante del colore, è ciò che le accomuna, ed è proprio in questa scelta condivisa che sembra esserci la soluzione a quella dicotomia tra innocenza ed esperienza citate nel titolo della mostra e mutuate dalle accezioni definite dal poeta inglese William Blake nella sua celebre raccolta. La resa finale candida, innocente per l’appunto, cela in realtà una visione più profonda in cui i colori sono usati in senso profondamente comunicativo e magmatico, come fossero entità vive e in un costante sentimento inquieto di indagine della propria intimità. L’atto del ricordare, unica verità possibile, è una materia disordinata e ribollente che aspira a un riconoscimento e a uno spazio proprio di cui la pratica artistica risponde all’esigenza di dare una forma, tracciando un sentiero-guida per guardare alla propria interiorità senza farsi risucchiare da essa.
Esperienza e innocenza possono dunque coesistere, e diventano i due poli entro cui sono cucite le opere in mostra, rivelandosi in tutta quella potenza che, secondo lo scrittore Orhan Pamuk, hanno gli oggetti innocenti: la potenza evocativa e al contempo fisica del ricordo, evanescente ma pur sempre radicata in ciò che si esperisce.

