(De)costruire le identità, ricostruire ciò che un tempo si è persi: tra memorie ed amnesie, il colonialismo è una ferita aperta, un passato che è un forte presente, un futuro che fa fatica a dimenticare. L’esposizione da A plus A, galleria veneziana dalle scelte coraggiose, si interroga proprio su questo: a partire dalla consapevolezza che non esiste coincidenza fra coscienza e memoria, la mostra curata dall’antropologa Paola Levra, è il racconto sulla decostruzione progressiva del paradigma della modernità occidentale, un’analisi sui linguaggi del contemporaneo che ne scaturiscono.
L’esposizione è il risultato del periodo di residenza a Venezia di tre artisti del Campus Caraïbéendes Artsdi Fort-de-France in Martinica: Flavio Delice, Samuel Gelas e Shamika Germain. Dalle contaminazione artistiche di due terre solo fisicamente lontane, sono nate una serie di interessanti opere realizzate in laguna, esito di un’arte che in ogni caso, appartiene al mondo.

Secondo la curatrice infatti «la società coloniale emerge dalla postura critica di ognuno dei tre artisti: Samuel Gelas ne fa affiorare i paradossi e le contraddizioni, le innumerevoli sfaccettature. Flavio Delice ne sottolinea la tendenza a marginalizzare ed escludere le minorità etniche immesse in un continuo flusso diasporico. Shamika Germain condanno duramente un evento storico (il Bumidon) che diventa evento traumatico e sottolinea le conseguenze di una crisi economica che produce e riproduce l’abbandono. Il trauma non arresta la ricerca continua di un’identità e di un’appartenenza capaci di conferire dignità e radici. L’immaginario proprio dei tre artisti ne rivela la capacità di trascendere l’evento traumatico».
E se le dolorose sfumature del colonialismo sono la chiave di lettura primaria, è il tema dell’infanzia comun denominatore che imperturbabile aleggia in ogni stanza, celato dietro a un’iconografia che finge di esserci distante.

Come fossero tre piccole personali, la prima stanza di A Plus A è un invito a comprendere la poetica dei tre artisti. Dall’ampia e luminosa vetrina, si intravede l’enorme tela del guadalupéense Samuel Gelas, unico dei lavori iniziato in Martinique e poi concluso nel capoluogo veneto, metafora di un gruppo sociale in cui l’infanzia è un passaggio fondamentale per l’affermazione dell’identità individuale.
L’arte del giovane Flavio Delice è invece un inno all’antropologia del paesaggio, le sue cartoline rappresentano ritratti di esuli haitiani, esplorando temi come la diaspora e l’esilio. La forte casualità attraverso cui ritrova ed assembla oggetti per creare sculture, lo lega all’accidentalità surrealista degli objet trouvé: una valenza estetica esposta all’occhio altrui, che assume significato nel momento in cui rimanda ad un ricordo. In questo caso, quello dello squilibrio permanente di un paese, Haiti, che ancora paga il prezzo della rivoluzione, anelando il ritorno a una terra d’infanzia.
Un mondo dove – come da lui stesso affermato – «uomini e spiriti coabitano in perfetta simbiosi e splendore di colori. Le opere evocano un Haiti sognato, nutrito dalle storie che mi hanno cullato. Gli oggetti e le tele evocano allo stesso tempo la materialità del mondo, con le sue tracce del passato. Ma le parole, i colori, le forme, ci invitano nell’immaginario, quello di un bambino che, con gli occhi spalancati, sogna ancora la sua isola lontana».




La storia tacitamente urlata da Shamika Germain è quella “Barrel child” jamaicani, bambini affidati a istituti pubblici o strutture d’accoglienza, testimonianza viva e concreta di un vissuto che l’artista conosce fin troppo bene. Una produzione che spazia dalla fotografia al disegno, dal video alla scultura: dietro l’illusoria purezza di feticci che alludono alla fisionomia delle bambole, si cela un mondo più complesso, fatto di rifiuti e sofferenza. Stratificazioni di carta pesta minuziosamente assemblate, sottintendono un’attenta cura da parte di Germain, una cura che lei, da bambina, non ha mai ricevuto. Imprigionati lungo tutta la galleria, i burattini senza volto raccolgono il rumoroso silenzio di anime e corpi separati dal seno materno, proprio come nella sua storia personale. Un seno che, provocatoriamente, accenna anche alla Francia, “cattiva madre” con le sue colonie.
Come spiega l’artista, l’antitesi da lei narrata «nasce da un dialogo intimo fra la sua esperienza personale e il modo in cui scelgo di rappresentarla. Le linee pure, i colori tenui e l’apparente semplicità formale sono strumenti per creare un deliberato contrasto con la profondità e la violenza dei temi trattati. Questa scelta estetica permette di affrontare argomenti complessi come il dolore, la resilienza e la ricerca di riparazione, offrendo al contempo uno spazio di contemplazione e introspezione. La morbidezza visiva funzione come una forma di sovversione: attrae, tranquillizza e incoraggia a guardare da più vicino, prima di rivelare contenuti carichi di significato, modo per rendere accessibile il difficile. Questo processo è anche influenzato dal desiderio di simboleggiare la dualità dell’esperienza umana, come anche nei contesti più oscuri, possa esserci un’estetica, una ricerca di significato o una forma di bellezza».

Proseguendo al piano superiore, l’imponente tela di Samuel Gelas è l’allegoria di una foto di classe elementare, che illustra le derive di una società caratterizzata da un’individualità ibrida. Ad emergere nel suo lavoro è «la questione dell’umanità nella società, la condizione umana attraverso disuguaglianze, ingiustizie, lotte, resistenza e resilienza». Diverse le fasi di creazioni attraversate, tra «figure ibride ispirate a racconti creoli e al carnevale delle Indie Occidentali, ritratti di classe per mettere in discussione la società, le relazioni, la creolizzazione ispirata ai pensieri del poeta e filosofo martinicano Edouard Glissant».
Continuando la propria narrazione sull’estetica del trauma, piccole culle-bara di Shamika Germain sono sospese in aria, ricordo lontano di neonati che non ci sono più. Alle spalle, quadri inquietanti di quella ricorrente bambola, con vestiti esageratamente grandi, triste memoria di bambini cresciuti troppo in fretta. Nel complesso, il messaggio dell’esposizione travolge, se ne esce (si spera) più consapevoli, con una serie di inevitabili considerazioni e forse con un affermativo irrisolto: il colonialismo, purtroppo, esiste ancora, ha solo cambiato faccia.
