Non si danno morti sul campo del tempo: quando il passato diventa materia

Intervista ad Andrea Polichetti, finalista al Talent Prize 2024 con l'opera "Upsidedown"

La ricerca artistica di Andrea Polichetti è stretta a doppio nodo con un passato vasto e indefinito. Più che un solco tradizionale da ribattere, quello che siamo stati, per Polichetti è materiale da lavorare: che sia lontanissimo nel tempo oppure lasciato appena dietro l’angolo acquista plasticità. Anzi, i pezzi sparsi dimenticati indietro lungo la strada sono spesso il materiale di partenza e segnano quello di arrivo. Non ci sono contrasti nella soluzione finale, non c’è cesura fra passato e presente: incastrato nelle composizioni questo tempo di continuità è una postura formale prima di essere pensiero. Upsidedown, lavoro finalista al Talent Prize 2024, è paradigmatico di queste operazioni: un basamento nel museo delle Navi di Nemi, non più utilizzato diventa in copia supporto per la doppia copia di se stesso ribaltata.

Upsidedown ragiona su quello che resta quando tutto è stato scelto: dai materiali al soggetto pare la reificazione del concetto di escluso.

Sì, è una reificazione del concetto di escluso, parla di subordinazione e di come attraverso il capovolgimento un oggetto atto a esporre diventa esso stesso un’opera d’arte, semplicemente perdendo la sua funzionalità. Ho voluto realizzare un umile monumento ai secondi, questo è espresso anche dai materiali utilizzati. Travertino e ottone sono da sempre considerati una seconda scelta rispetto al marmo e al bronzo, più duttili ed economici: il primo ha letteralmente rivestito templi e anfiteatri in età augustea, mentre il secondo è stato fondamentale in era industriale per la sua resistenza statica sia nell’ambito della costruzione prima che nel product design dopo.

Non è la prima volta che ti confronti con l’idea colonna, cosa ti affascina di questo elemento architettonico?

Da romano non sono mai riuscito a rimanere indifferente alle vestigia che popolano la nostra città, motivo per il quale è stato molto naturale disegnare colonne romane dal vero, processo nel quale affondano le radici segniche le mie architetture. Da un punto di vista concettuale invece la colonna o il pilastro sono l’inizio dell’architettura, insieme all’architrave, costituiscono la base su cui erigere un rifugio, metaforicamente può essere considerata come la base della civiltà.

Il ribaltamento è un tema ricorrente del tuo lavoro.

Sì, è palese anche nella mia ultima produzione Folgore realizzata in occasione del FuoriFestival di Spoleto. Ho riprodotto un fulgur conditium, effige romana che rappresenta il fulmine: veniva realizzata in bronzo e sepolta nel rito del bidentalia. In questo rito l’area colpita dal fulmine veniva recintata e considerata sacra, al contempo veniva scavata una fossa riempita degli oggetti idealmente colpiti dalla scarica. In Folgore questa icona è stata realizzata in ferro battuto e neon e anziché essere sepolta è stata esposta su un palo indicando un luogo sacro come nel rituale romano. Il simbolo innalzato anziché sepolto diventa un vessillo, eretto al pari di una bandiera di rivendicazione con la quale riappropiarsi di uno spazio collettivo, nel quale sentirsi al sicuro, in questo caso la rocca Albarnoz location del FuoriFestival.

La tua poetica sembra cercare anche una postura ideologica.

Penso che si possa sempre dare una lettura ideologica all’arte e che essa sia il riflesso del presente reale, nei casi più felici ci rivela invece il futuro. Mi piace immaginare che il mio lavoro parli di conflitto ma anche di rivendicazione, d’altronde per me l’arte è sempre stata un mezzo di lotta per emanciparmi e creare il mio modo di vivere.

I tondini tirati e mozzati delle colonne, curvati e perimetrali diventano volti ancestrali.

Utilizzare il tondino di ferro è stato per me molto naturale, oltre a essere il figlio di un fabbro vedo questo elemento con un segno da modellare a mio piacimento. I volti ancestrali arrivano cronologicamente prima delle architetture e sono il frutto di un lungo lavoro di disegno automatico attraverso il quale ho costituito un alfabeto segnico con cui ho proiettato fuori dalla mia mente questi strani esseri: presenze inconsce disegnate che si stagliano nello spazio.

Non è infatti solo la scultura a occupare il tuo lavoro: l’ossessione per l’oggetto d’uso comune torna ma bidimensionale (anche) su feltro.

Più che un’ossessione è la volontà di realizzare lavori attraverso i quali dare una maggiore dignità a oggetti che sono solitamente dietro la costruzione di opere (come i fil di ferro o gli imballaggi). Espressioni bidimensionali sì, ma con un approccio più scultoreo che pittorico, questi oggetti di uso comune intrisi di pittura a olio vengono stampati con la tecnica del monotipo su diversi supporti come la carta, la juta o il feltro. Materiali di matrice industriale anch’essi espressione di un mondo produttivo e metafora dell’industria pre o post bellica attraverso i quali la società capitalista ha preso l’avvento.

Il contrasto esibito fra forma ricerca e materiali poveri sembra richiamare la ricerca artistica del paesaggio romano del passato, quanta influenza la città ha avuto nel tuo percorso?

Roma e i suoi artisti hanno da sempre avuto su di me una grande influenza; per i lavori delle impronte a esempio ho guardato molto a Scialoja e Kounellis e ancor di più a Salvatore Meo con cui ho esposto in una doppia personale a Spaziomensa e che ho cercato di omaggiare con l’edizione della mostra prodotta nella storica litografia Bulla. Questa esperienza mi ha fatto sentire davvero in relazione e dialogo con gli artisti del passato, questione che si deduce sia dalle scelte stilistiche che dalle composizioni messe in campo nei lavori bidimensionali.

Quasi invece come una divagazione stanno le cianotipe.

Le cianotipie mi hanno permesso di confrontarmi con dei grandi formati bidimensionali, ho iniziato a produrle in campagna durante il lockdown nel 2020. Queste opere parlano di conflitto in questo caso sull’egemonia del paesaggio, da sempre in corso tra uomo e natura. Sono piante spontanee, che l’uomo continuamente estirpa, trasfigurate con la luce su un materiale completamente artificiale, l’mdf (lastre di polvere di legno e colla), una rappresentazione poetica di scarti continuamente trasformati dall’industria o dalla natura.

L’opera finalista al Talent Prize 2024

L’opera indaga l’elemento del plinto attraverso una ricerca focalizzata su alcuni basamenti di travertino trovati inutilizzati all’interno del Museo delle Navi di Nemi. Questo stato di inattività comporta la perdita della funzione di supporto dei plinti e ne determina una condizione altra, indipendente. Partendo da questa variazione semiotica Polichetti realizza una colonna composta da due plinti, uno in travertino e l’altro rovesciato in ottone. Entrambi, formalmente identici, sono la copia esatta dei plinti presenti nel Museo delle Navi di Nemi. In questo modo il piedistallo da mero elemento di sostegno dell’opera d’arte diventa esso stesso opera d’arte. Upsidedown è immaginata come un monumento ai secondi e agli esclusi.

Chi è Andrea Polichetti

1989 Nasce il 7 settembre a Roma

2018 Co-fonda Da Franco, Senza Appuntamento, Spazio indipendente pop-up a Roma

2020 Partecipa a una doppia personale con Fondazione Salvatore Meo a SPAZIOMENSA, Roma

2022 Espone in una collettiva al Corcoran Museum di Washington DC

2024 Stage commission per FuoriFestival, Spoleto

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