“…non ho rinunciato, nascondendomi dietro il fantasma che gli avvenimenti in corso non hanno ancora la consistenza della storia, ad analizzare e a prendere posizione sul presente dell’arte e della riflessione sull’arte”. Così scriveva Angelo Trimarco nel prologo di Italia 1960/2000. Teoria e critica d’arte (2012), un libro e una narrazione che attraversano con disarmante lucidità le vicende del sistema dell’arte in Italia, in un’arcata cronologica che comincia la sua parabola quando ancora di sistema non si parlava – ma erano mature le condizioni per il suo cominciamento – e che non si conclude con l’inizio del nuovo millennio, poiché di questo libro ne è uscita una riedizione ampliata ed aggiornata nel 2022, quando il Professore si è trasformato, per sua stessa ammissione, “in autore plurale”, accogliendo i contributi di un gruppo di studiosi, docenti e ricercatori formatisi proprio nel suo ampio raggio operativo.
Un’azione, la sua, che ha trovato una base stabile e solida nell’Università di Salerno dai primi anni Settanta, quando ha assunto l’incarico di insegnamento del corso di Storia della Critica d’Arte, tenuto fino al 2011 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di cui è stato anche Preside. E proprio a Salerno Trimarco è stato tra i protagonisti di una storia che ha avuto un impatto su tutto il sistema dell’arte in Italia, una storia che troppo spesso viene omessa.
Nell’anno del centenario del Primo Manifesto Surrealista, il 2024, ci si dimentica colpevolmente che durante l’anno accademico 1972-1973 presso l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Salerno, dove, alla fine degli anni Sessanta Filiberto Menna fonda la prima cattedra di Storia dell’Arte contemporanea in Italia, Trimarco organizza, con Menna, il convegno di “Studi sul Surrealismo”, che riaccende l’interesse sull’avanguardia primonovecentista grazie alla partecipazione e ai contributi di un gruppo straordinario di studiosi (per citarne solo alcuni: Argan, Boatto, Bonito Oliva, Calvesi, Dorfles, Fossati, Perniola, Sanguineti) impegnati in un “riesame del Surrealismo dal punto di vista di discipline diverse”. E Trimarco è uno di quelli che il Surrealismo lo attraversa almeno dal 1970, prima di tanti altri, in una linea continua che ne seziona i temi, gli artisti e le “occasioni di critica”.
La sua formazione filosofica gli permette di intraprendere l’impresa dell’interpretazione con grande elasticità e con la consapevolezza che la rigidità metodologica è sentiero ingannevole, strada senza uscita che si risolve nella disponibilità ad ascoltare il presente e i suoi tumulti multidisciplinari, senza mai abbandonare la necessità di dotare di un impianto teorico solido ogni sua riflessione. “Il presente dell’arte”, oltre all’Avanguardia, poi, è lo spazio dove Trimarco ha testato la validità dei metodi e delle metodologie, ha interrogato la volubilità e le debolezze della critica, anche qui, senza mai cedere al mercanteggiamento sistemico, senza mai usare la sua puntualità critica come moneta di scambio per incarichi e posizioni.
La scelta pura della missione accademica (ha prestato servizio a titolo gratuito per qualche anno dopo il suo pensionamento), la sua postura e il suo gesticolare accoglienti lo hanno reso un esempio e un punto di riferimento assoluto per le sue studentesse e i suoi studenti; la stessa scelta che probabilmente lo ha allontanato dai tappeti lucidati e dalla visibilità in forma global che invece ha travolto altre figure del panorama italiano. La sua discrezione fa il paio con la lucidità dei suoi scritti, anche quando il mondo dell’arte contemporanea ha definitivamente abbattuto ogni frontiera.
In “Confluenze” (1990), ad esempio, quando stava cambiando decisamente marcia la retorica della fine (dell’arte, della storia, della storia dell’arte), Trimarco avvisa che non è il caso di abbandonarsi a “facili e scontati paragoni fra ingegni moderni e funambolismi postmoderni” e che proprio nello spazio ancora attivo del postmoderno bisognava accogliere le correnti differenziate in atto dopo le strategie degli anni Ottanta. Trimarco è stato anche colui che nella psicosi collettiva della post-storia ha levato la voce per ricordare a tutti che l’arte vive nel “privilegio” di potersi porre come progetto e “spazio di decostruzione e costruzione non soltanto delle strutture e dei profili semiotici delle pratiche specifiche, ma, insieme, della vita e del mondo” (Post-storia. Il sistema dell’arte, 2004) – qui l’eco dell’insegnamento menniano è fortissima.
Parlare del sistema in termini di “Galassia” (2006), centralizzare in tempi non sospetti l’importanza del rapporto tra “L’arte e l’abitare” (2001) e del concetto di “opera d’arte totale” come chiave di lettura di fenomeni artistici e culturali dall’andamento spesso ciclico, ma anche, indietreggiando, raccontare Napoli e le sue incandescenze (Napoli ad Arte 1985/2000, 1999), “l’inconscio dell’opera” (1974), gli “itinerari freudiani” (1979) della critica e della storiografia dell’arte, disegnare “la parabola del teorico” sempre inquieta (1982), invitare a pensare “a un concetto allargato di critica d’arte” capace di rilevare le radicali trasformazioni dell’oggetto dell’arte e della disciplina anche in rapporto alle evoluzioni della teoria e della storia dei musei, dei musei stessi in una dimensione ormai definitivamente globalizzata, tutto ciò fa della traiettoria di Trimarco un unicum di rara composizione.
Come dice nel prologo sopra citato, non si è mai nascosto, e la sua produzione lo testimonia, e lo testimonia anche la sua attività di Presidente della Fondazione Menna dal 2006 al 2017, un tratto di strada nel quale l’istituzione salernitana ha potuto conoscere, grazie al dono della sua amicizia e della sua competenza, una serie impressionante di attori e protagonisti di questo famigerato sistema. Perché di quest’ultimo Trimarco è stato innegabilmente protagonista e narratore sopraffino, elegante e autentico; da quest’ultimo Trimarco dovrà necessariamente ricevere i giusti onori. Per ampiezza e spessore la sua lezione non potrà rimanere inascoltata e, per citare una sua espressione riferita a Leonora Carrington, messa nero su bianco molto prima della brillante Biennale veneziana di qualche anno fa, “continuerà il suo viaggio per restituirci, invece, attraverso le amplificazioni sorprendenti di un cornetto acustico, le mutazioni terribili delle cose e i loro enigmi”.