La storia del collezionismo, dagli studioli rinascimentali ai musei pubblici

La Direttrice della GNAM Renata Cristina Mazzantini riflette sulla storia del collezionismo e sulla funzione pedagogica del museo

Renata Cristina Mazzantini, architetto, Phd, è Direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea e curatrice del progetto Quirinale Contemporaneo, oltre che consulente del Segretariato generale della Presidenza della Repubblica per i profili artistici e architettonici. Dal 2001 lavora continuativamente per la pubblica amministrazione. Ha collaborato con Inside Art come autrice di interviste a maestri dell’arte contemporanea e articoli di approfondimento e dal 2020 in qualità di giurata del Talent Prize. Ha preso parte insieme all’editore e direttore di Inside Art Guido Talarico, ai documentari da lui ideati in collaborazione con Rai Cultura e dedicati a Marcel Duchamp, Emilio Isgrò e Mario Ceroli.

Renata Cristina Mazzantini è stata intervistata dal Direttore della Pinacoteca di Brera, Angelo Crespi, in occasione del convegno The Art Symposium tenutosi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma il 27 maggio 2024.

Il collezionismo di opere d’arte è quello più ampio del mondo. Molte di queste collezioni poi finiscono nei musei: alla fine molti collezionisti, di solito in punto di morte, decidono di donare le loro collezioni, perché preferiscono la dimensione pubblica. Sono veramente strumenti di crescita queste collezioni?

Le collezioni sono strumento di crescita se acquistano una dimensione pubblica. Ma la dimensione pubblica è una conquista nella storia del collezionismo e non va data per scontata. Nel Rinascimento, il “principe” di turno conservava i suoi tesori in uno studiolo, destinato all’otium intellettuale mosso dal contatto con le humanae litterae, dove ammetteva solo gli eruditi, che erano in grado di capire il valore di ciò che vi era nascosto. Ai tempi di Isabella d’Este o Francesco I, il collezionismo era ancora un fenomeno a carattere privato, ma non aveva solo una valenza artistica. Spesso, come osserva anche Umberto Eco, si collezionavano oggetti a cui si attribuiva anche un valore magico, come le gemme, riprendendo da Plinio il concetto per cui una gemma «racconta il mondo più di ogni altra cosa».

Allora la cultura dominante attribuiva agli oggetti da collezione valori diversi da quelli di oggi. A poco a poco, però, è maturato il concetto di connoisseurship, con l’idea che mostrare opere d’arte e oggetti antichi conferisse al collezionista uno status sociale e culturale. I Medici, ricchi banchieri, si trasformano in “principi” anche grazie al collezionismo. Così prese corpo una vera rivoluzione: il potere si spostava da chi lo aveva acquisito militarmente o per volere divino, a chi dimostrava di possedere la “conoscenza”, grazie ad una certa forza economica e politica. Ovviamente, per sugellare il potere della conoscenza, era necessario che il “principe” esibisse i propri tesori. Così l’aristocrazia iniziò a mostrare le collezioni aprendo i propri palazzi. A partire da Palazzo Medici-Riccardi, concependo le collezioni come ostentazioni della conoscenza e strumento politico, per asseverare l’ascesa al potere che era in atto.

Motivo per cui in Italia il fenomeno del collezionismo si è sviluppato prima che in paesi con monarchie storicamente più stabili, che non cercavano alcuna legittimazione. Il concetto di connoisseurship ha dunque fatto emergere l’importanza della dimensione pubblica delle collezioni. Inoltre, ha sviluppato il mecenatismo, da sempre sotteso alla formazione del patrimonio, che è stato per secoli uno dei motori del collezionismo.

Ritorniamo però alla domanda di Angelo Crespi. C’è un secondo aspetto, legato alla dimensione pubblica, per cui molti collezionisti donano i beni allo Stato: la “sottrazione” dal circuito mercantile, che dovrebbe impedire la dispersione delle collezioni e mantenerne il valore. Secondo Krzysztof Pomian, entrando in una collezione gli oggetti acquistano un potere “semioforo”, escono dal mercato, assumono un significato che li qualifica come opere d’arte. Questa affermazione è ancora plausibile per quanto riguarda i musei pubblici, anche se oggi il concetto della sottrazione è più debole, dato che il valore di un’opera d’arte è sempre più spesso coincidente con il valore di mercato.

C’è infatti l’idea di patrimonio inestimabile, proprio perché non può essere stimato, perché sottratto alla vendita.

È così. Un museo pubblico in Italia, anche laddove un’opera acquisita in passato non avesse più un valore di eccezionalità, non può rimetterla sul mercato o permutarla. Del resto per una amministrazione pubblica è difficile persino dismettere un vecchio computer! L’inalienabilità dei beni pubblici lega il collezionismo a una tradizione che Italia aveva istituito il fedecommesso per vincolare intere collezioni, proprio perché riconosceva all’insieme un valore maggiore rispetto a quello della somma dei singoli pezzi. Non bisogna dimenticare che la differenza tra una raccolta di oggetti e una collezione sta proprio nel valore culturale che si riconosce a quest’ultima. In questa prospettiva, ogni museo che conserva e incrementa le collezioni pubbliche ha una notevole responsabilità: contribuire alla formazione del patrimonio culturale collettivo.

Al di là delle fluttuazioni di mercato che dipendono dalla moda e dalla costante ricerca di novità, di un mondo in cui la velocità impera e l’accelerazione predomina, la collezione di un museo resta. È permanente, il che non significa che è statica. Anzi, tutt’altro: la collezione di un museo deve essere dinamica e sempre aperta a nuove accessioni. Con l’esperienza di Quirinale Contemporaneo, ho assimilato la responsabilità connessa alla selezione dei nuovi lavori in una collezione pubblica, in quel caso per la dotazione presidenziale: opere che continuano a integrare un patrimonio secolare proiettato nel futuro, con una visione dinamica secondo la quale ogni generazione deve aggiungere all’esistente qualcosa di nuovo, che un giorno sarà degno di diventare antico. In questo modo, il patrimonio appunto dei “patres” sarà costantemente arricchito e trasmesso ai figli.

Forte di quest’esperienza, so che la GNAM come unica Galleria Nazionale dedicata all’Arte Moderna e Contemporanea ha la responsabilità della formazione del patrimonio artistico nazionale: del resto, fu istituita proprio per creare un patrimonio comune al nuovo stato unitario. Per questo, so che è importante dare ampio spazio agli artisti italiani e lavorare costantemente all’integrazione della collezione, senza creare vuoti o “bucare” artisti importanti.

Il museo come istituzione si basa sulla collezione, che è un patrimonio pubblico. Come si può tradurre in un museo l’investimento economico in strumento di crescita democratica?

Il museo è uno strumento di crescita democratica se considera centrale la sua funzione pedagogica. I primi musei moderni nacquero proprio con questo obiettivo. Il British Museum per conservare e rendere fruibili alcune importanti raccolte private acquisite dalla nazione Britannica. Il Louvre perché Napoleone diede a Vivant-Denon il compito di “dare” simbolicamente al popolo le opere che prima erano rinchiuse nelle chiese o nei palazzi, come gesto propagandistico della Rivoluzione, per rendere la società migliore educando i francesi alla bellezza e all’arte. L’arte, infatti, è parte dell’educazione e della vita della società civile: nell’Antica Grecia “il più bello era il più giusto” e l’arte era innanzitutto pubblica, nel senso che pervadeva lo spazio pubblico. Scultura, architettura e pittura erano un tutt’uno, così connotavano le strade e le piazze, come gli ambienti privati.

Per essere strumento di crescita democratica e mantenere al centro la sua funzione pedagogica, oggi un museo, che compete per il tempo libero con altre forme di entertainment, deve saper “educare e divertire” al contempo. Deve quindi offrire “edutainment” e insegnare alla cittadinanza, a partire dai bambini, il valore estetico e etico dell’arte, divenendo produttore e emittente di contenuti culturali. In questa prospettiva, come segno della nuova direzione, ho presentato l’iniziativa Artista alla GNAM: Emilio Isgrò protagonista 2024, e promosso questo simposio: per stimolare riflessioni culturali che producano contenuti originali e di valore. Bisogna tenere presente che comunicare a un’utenza ampliata e soprattutto ai bambini richiede una professionalità specifica.

Un museo ha successo se sa attirare un pubblico vasto e non solo gli esperti del settore: se sa avvicinare le masse all’arte. Un museo di arte contemporanea, in particolare, deve sfruttare il vantaggio di poter comunicare l’arte coinvolgendo gli artisti viventi, dimostrando che l’arte è una punta di diamante della cultura che spesso anticipa e interpreta le tensioni insite nella società. Immagino dunque che la GNAM possa diventare ancora più determinante e internazionalmente autorevole nella promozione dell’arte italiana degli ultimi due secoli, nella convinzione di voler attirare soprattutto i giovani, anche organizzando centri estivi e laboratori dedicati ai più piccoli. Non solo per aumentare e diversificare il pubblico del museo, ma anche per assolvere alla funzione pedagogica di cui parlavo.

E il ruolo dei collezionisti?

È importantissimo. Nel Rinascimento verosimilmente c’erano altri artisti del calibro del Botticelli, che però non hanno avuto la fortuna di entrare nella corte de’ Medici e che, forse proprio per questo, sono rimasti anonimi. Certamente Lorenzo de’ Medici ha dimostrato una sensibilità fuori dal comune nello scegliere i suoi artisti. Ciononostante, è più probabile che un’opera d’arte non appartenente a un’importante collezione rinascimentale sia stata meno studiata, meno tutelata e quindi non sia passata alla storia.

Così le due grandi collezioniste Patrizia Sandretto o Giuliana Setari Carusi, qui presenti, hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione del panorama artistico italiano: le loro scelte hanno determinato la conservazione e la valorizzazione di precise opere. Le loro collezioni, inevitabilmente, raccontano in modo diverso lo scenario dell’arte degli ultimi decenni, perché riflettono la sensibilità delle due collezioniste nella selezione di alcuni autori e l’esclusione di altri.

*L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #132, special issue dedicato agli Atti del convegno The Art Symposium tenutosi il 27 maggio 2024 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.

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