Claudia Dwek è Chairman di Sotheby’s Europe. Negli anni ’90 ha organizzato numerose vendite di successo di collezioni straniere di arte italiana in Italia, come la Collezione Estorick (1995) e la Collezione Seeger (1998). Ha lavorato a stretto contatto con gli uffici di Sotheby’s a Londra e New York per organizzare vendite speciali, come la Collezione Plaza di dipinti di Morandi (1997). Claudia Dwek è stata intervistata dal Direttore della Pinacoteca di Brera, Angelo Crespi, in occasione del convegno The Art Symposium tenutosi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma il 27 maggio 2024.


Nelle case d’asta – per la prima volta nella storia dell’arte – si compra arte per poi rivenderla. La casa d’aste crea il mercato e ha non solo un potere immenso, ma anche una grande responsabilità, perché l’unico prezzo esistente sul mercato dell’arte pubblico è quello della battuta d’asta, mentre tutti gli altri fanno parte di un “mercato grigio”. La casa d’asta è dunque uno dei tanti luoghi in cui il collezionismo si forma.
Ho iniziato giovanissima a lavorare in una casa d’aste, ero anche studentessa all’università. Puntualmente alle fiere mi viene chiesto se il prezzo di un’opera, se acquistata, possa crescere negli anni successivi: è esattamente il contrario di quello che io ho sperimentato quando ho iniziato trent’anni fa. Ho avuto l’onore di avere dei mentori che erano i veri pionieri del mercato dell’arte, tra i collezionisti compratori degli anni ’60 è ’70 e i galleristi che hanno esposto i grandi artisti del dopoguerra. Ognuna di queste personalità ha permesso che in Italia si creasse un collezionismo d’eccezione, riconoscibile in tutta Europa.
Collezionisti che non badavano al mercato, perché c’erano nomi di galleristi che tentavano di comprare anche sotto i mille dollari.
Abbiamo avuto personaggi straordinari in Italia come Achille Maramotti che inventando il pret a porter veniva a trovare i tessuti a Roma e girava per le gallerie: La Salita, L’Attico, La Tartaruga. A Milano c’era Fontana che nel 1959 faceva i primi quadri con i tagli, Gian Enzo Sperone o Mario Tazzoli alla Galleria Galatea Torino che hanno portato artisti grandissimi in Italia: avevamo tutto un collezionismo che gravitava attorno a questo. C’era ancora la figura del gallerista che consigliava al collezionista: sul perché comprare Bacon piuttosto che Anselmo, Paolino o Fabro. Grandissime collezioni sono state raccolte nel nostro Paese grazie all’aiuto del gallerista e al rapporto di fedeltà instaurato con il collezionista.
Tutto questo per spiegare come in trent’anni sia cambiato tutto, soprattutto con internet e il web: artisti che magari hanno impiegato anni per farsi conoscere all’estero, ora grazie alle fiere e alla condivisione online, riescono ad arrivare ad un pubblico assai più ampio. Si è creata una classe di collezionisti che si interroga sul valore degli artisti e sulle scelte ottimali di investimento. Io sono sempre dell’idea che va comprato quello che piace, ma il mercato non lo pensa così e neanche i collezionisti di nuova generazione.

Riassumo con una frase: l’arte antica costava perché valeva e l’arte contemporanea vale perché costa. Il prezzo è diventato molte volte una delle caratteristiche principali. Spesso l’arte contemporanea ha prestigio perché il prezzo è molto alto e il collezionista che può guadagnarci immagina di poter fare ricavi su quel prezzo.
Non sono di questa idea ma penso che in tutte le epoche, l’arte che era contemporanea valeva di più perché facilmente comprensibile. Attualmente l’arte contemporanea vale di più dell’arte antica perché è più vicina alla nostra cultura, si adatta di più al modo in cui viviamo, ci riconosciamo di più in quel tipo di arte. L’opera d’arte quando entra in un museo o quando è già in un museo da decenni, fa parte del museo. Io credo che questi investimenti culturali museali dovrebbero in Italia finalmente avere una leggera fluidità.
In tutti gli altri paesi del mondo infatti c’è il meccanismo dell’“accessioning”, ovvero l’accumulo di opere d’arte nei secoli e che ora non sono più così importanti per la collezione del museo, ma anzi impediscono di acquisire nuove collezioni. Abbiamo avuto esempi clamorosi, come quello della collezione Agrati a Milano o la collezione Panza di Biumo che è finita al MOCA di Los Angeles perché lo stato italiano non aveva spazio dove prenderle. È fondamentale pensare che ci sia un minimo di fluidità nel patrimonio museale, avere il coraggio di porre sul mercato opere non fondamentali allo stesso museo ma che poi permettono di acquisire opere d’arte.
La questione del collezionismo implica anche una riflessione fenomenologica: ci sono molte arti in cui la fruizione è sufficiente, non ci vuole possesso. La musica si esaurisce nella fruizione. Nelle arti visive, da sempre, c’è questo paradosso per cui la fruizione assomiglia molto al possesso. Ritieni sia possibile scindere per il compratore o collezionista, il dividendo estetico da quello economico?
Direi di sì, c’è sempre un côté estetico legato all’investimento, c’è sempre un perché dietro l’acquisto di un’opera d’arte. È un discorso molto ampio quello affrontato oggi: evidentemente il dividendo estetico è grandissimo e prioritario rispetto a quello economico, ma ovviamente l’aspetto economico è molto importante. Io ho una collezione e non ho mai comprato niente in asta, sempre in gallerie, perché ho avuto galleristi della mia generazione che mi hanno aiutato a scegliere. Il dividendo estetico è fondamentale, non troveremo mai qualcuno che compra un quadro solo per motivi economici. Il problema è quando una galleria si trova di fronte giovani artisti e cento collezionisti che vogliono lo stesso artista ma non possono soddisfare tutti quanti e ovviamente fanno delle preferenze. Ci troviamo di fronte a un collezionismo molto esigente perché le opere costano tanto.

*L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #132, special issue dedicato agli Atti del convegno The Art Symposium tenutosi il 27 maggio 2024 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.