Alberto Gambino è professore ordinario di diritto privato e Prorettore dell’Università Europea di Roma. Precedentemente è stato direttore del Dipartimento di Scienze umane e della Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali. Ha insegnato come docente di ruolo nell’Università degli studi di Napoli “Parthenope” e come docente incaricato alla Luiss Guido Carli e a La Sapienza Università di Roma. È anche docente di filosofia del diritto, di diritto dell’informatica e di diritto sportivo. Alberto Gambino è stato intervistato dall’editore di Inside Art, Guido Talarico, in occasione del convegno The Art Symposium tenutosi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma il 27 maggio 2024.
Prorettore dell’Università Europea, docente di diritto privato e Presidente del Centro Studi Scienza e Vita. Alla luce della sintesi e dei contatti dei mondi diversi di cui ti occupi, qual è stato il tuo percorso?
Questa sintesi ha un carattere un po’ romantico, perché deriva da una scommessa, ovvero che davanti al dilagare della tecnologia abbia ancora un senso una dose di formazione umanistica. Le AI e gli algoritmi sono tecniche, non contenuti, e pur ottimizzando la ricerca questi ultimi generano anche pigrizia, e soprattutto nei più giovani l’abbassamento della curiosità di fronte a risposte immediate. Allora si crea una assuefazione, perché i contenuti diventano standardizzati, sono utili ma anche incontrovertibili: il pensiero finisce per trasformarsi in un trend. Le AI si definiscono in base al passato, perché il loro grande archetipo di riferimento è la statistica, e tracciano soluzioni inesplorate: spesso sono molto più efficienti dell’intelligenza umana, ma non hanno il guizzo creativo tipico del genio.
Ma il genio è una piccola porzione all’interno l’umanità: per evitare che il mondo diventi a un certo punto troppo standardizzato e per far sì che i nostri giovani si appaghino di contenuti qualitativamente migliori è necessario innervare di umanistica. È proprio questo lo scopo degli atenei, cioè di spingere a riflessioni attraverso le materie tradizionali, certo con le tecniche nuove, però i grandi progressi dell’umanità li ha fatti il pensiero, nel bene e nel male. Il pensiero umano è sempre stato uno strumento di soluzione anche irragionevole, capace di deviare rispetto a un percorso.
Ed è qui la scommessa, e cioè di ritenere che gli enti formativi possano ancora, una volta consegnate le competenze tecnologiche ai fruitori, avere la capacità critica di sollecitare una cultura più profonda, perché altrimenti avremo un mondo sì veloce, ma in cui ci sarà meno capacità di godere dei valori dell’arte e della cultura. Di conseguenza, emerge un’altra questione importante, quella del diritto d’autore. I chatbot sono in grado, infatti, di rielaborare contenuti, che però finiscono per essere indistinguibili dall’originale, e dunque non vengono pagate le royalty. Nella Commissione sul diritto d’autore – di cui faccio parte – si sta cercando di stabilire una normativa a riguardo, altrimenti la creatività scomparirà, e la creatività deve essere remunerata. Ecco a cosa serve l’ente formativo università.
Ti occupi di un’altra questione trasversale: l’etica, che ha un valore assoluto spesso dimenticato quando si fanno delle analisi comparate. Come inquadri dal tuo punto di vista il tema dell’etica nella formazione e nello sviluppo culturale di un Paese?
C’è un’etica legata all’insegnamento, che riguarda la modalità di trasmettere un sapere, ovvero adattare al meglio la capacità divulgativa. Rispetto a questo nel mondo universitario c’è un po’ di resistenza: spesso si dice che i più grandi ricercatori hanno una bassa capacità espressiva e divulgativa, e viceversa i grandi divulgatori sono molto deboli nelle radici del sapere, e in parte è vero. Le due condizioni vanno allineate: bisogna essere tanto fondati nelle proprie radici culturali quanto trovare nuove tecniche per interessare le nuove generazioni, ed è qui che si può parlare di etica dell’insegnamento. Per certi versi è facile salire in cattedra, raccontare le cose che si raccontano da sempre con la totale disattenzione dell’uditorio. Molti docenti continuano a insegnare così, non rendendosi conto che è un comportamento non etico, oltre che presuntuoso.
Poi c’è l’etica dei contenuti, e in questo le tecnologie hanno un ruolo formidabile. Faccio un esempio: sono nel Comitato Nazionale di Bioetica, e una volta il Ministro della Giustizia ci ha sottoposto un quesito. Riguardava il caso di un detenuto anarchico che poneva in essere lo sciopero della fame e della sete perché venissero allentate le sue misure detentive, particolarmente dure e non pensate per il tipo di reato che aveva perpetrato. Si temeva che potesse morire in carcere, con tutte le conseguenze del caso. Da qui il quesito posto al Comitato di Bioetica, a cui è stato chiesto come agire, e cioè se rispettare o meno la volontà del detenuto di non essere alimentato in caso di perdita di coscienza, ovvero una condizione in cui scatta lo stato di necessità. La maggioranza ha deliberato a favore dell’alimentazione, mettendo in campo anche un ragionamento giuridico.
Al termine del parere, pubblicato sul sito del Comitato, alcuni membri hanno pensato di porre il quesito a ChatGPT, che ha fornito una risposta analoga. Di fronte a una maggioranza rassicurata, la parte minoritaria ha chiesto all’AI di fornire le fonti da cui aveva attinto, e tra queste non poteva esserci il nostro parere perché ChatGPT non include le informazioni degli ultimi tre anni. L’AI elenca una serie di leggi, da quella sull’ordinamento penitenziario a quella sul consenso informato, oltre ad alcune norme di stampo penalistico, ciascuna delle quali presentava i relativi articoli e rubriche. Nel momento in cui le leggiamo, ci accorgiamo che i contenuti non esistevano: erano stati completamente inventati dall’algoritmo ed erano un’interpolazione di opinioni sul quel tema, che provenissero da una relazione di un professore universitario o da un articolo giornalistico.
Questo insieme di contenuti aveva creato una sorta di pensiero eticamente dominante. Da qui, la maggioranza si è posta un altro problema, chiedendosi se l’etica possa essere definita da una maggioranza e dagli elementi provenienti dal passato, diventati scolpiti sulla pietra di un algoritmo, o se queste acquisizioni possano essere rovesciate. Nonostante le fonti siano erronee, resta il fatto che su queste si fonda un pensiero condiviso difficile da ribaltare. Di fronte a ciò, dunque a un pensiero non rovesciabile, i nostri strumenti di dialettica vengono meno, perché i cittadini lo ritengono plausibile. Questo è un tema molto importante che non riguarda solo l’etica, ma anche il diritto, la giustizia, la politica e il pensiero. Dunque, è un esempio di ciò che significa etica e tecnologia.
*L’articolo è stato pubblicato su Inside Art #132, special issue dedicato agli Atti del convegno The Art Symposium tenutosi il 27 maggio 2024 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma.