Fabio Vaccarono è Amministratore Delegato di Multiversity e CEO con forti esperienze internazionali nel mondo digitale. In precedenza ha ricoperto diversi incarichi da Amministratore Delegato e Direttore Ge- nerale, dal Gruppo Editoriale L’Espresso al Gruppo Sole 24ore, in RCS Mediagroup ed è stato inoltre CEO di Starcom Mediavest, società di Publicis Groupe. Fabio Vaccarono è stato intervistato dall’editore di Inside Art Guido Talarico in occasione del convegno The Art Symposium tenutosi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma il 27 maggio 2024.

Con una carriera professionale che ha attraversato la rivoluzione digitale, qual è la tua esperienza in relazione al tuo attuale impegno in ambito universitario?
Non ho particolari meriti, se non la fortuna di aver avuto tre periodi abbastanza lunghi della mia carriera in tre mondi che hanno legami più o meno diretti con quello dell’arte. A riprova di quanto cercherò di sostenere, questi settori hanno conosciuto fortissime ibridazioni nel corso dell’ultimo ventennio. La mia carriera ha avuto inizio nel mondo della grande editoria italiana: per dieci anni ho lavorato tra i quotidiani più importanti del Paese. Per altri dieci, invece, ho lavorato in Google, prima come responsabile dell’Italia e poi anche come Vicepresidente, per cui ho avuto la fortuna di confrontarmi con i colleghi di una geografia che comprende l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Da ultimo, il mondo dell’università, sia pure nella sua formulazione più innovativa, e cioè il sistema dell’università digitale. Nell’ambito della formazione superiore – dal diploma al dottorato – e di quel complesso di attività relative alla più volte citata “formazione continua” non si può non ricorrere ampiamente, soprattutto in Italia, alle tecnologie digitali. Nella nostra epoca nessuno si può sentire escluso dalle rivoluzioni in arrivo, o meglio, che sono già arriva- te: che ce ne si sia accorti o meno, oggi viviamo in un mondo in cui ci sono quasi 6 miliardi di persone collegate in rete. Il dato meno noto è che ciascuno di questi si collega con una media di 5 o 6 device tecnologici a testa: tra tecnologie indossabili e supporti di vario tipo, si può stimare che oggi sul pianeta ci siano circa 50 miliardi di device connessi e intercomunicanti con la larga parte della popolazione mondiale e i relativi device. In una realtà di questo tipo l’industria dei contenuti e dell’espressione, il mondo del tech e del digitale e quello dell’università si ibridano e si influenzano, compenetrandosi tra loro. La tecnologia ha avuto un forte impatto, ad esempio, sul mondo dell’editoria: se quindici anni fa i quotidiani erano dei business industriali, oggi i giornali esplorano le frontiere del real time con un ampio ricorso ai contenuti audio e video, tanto che i due mondi sono diventati un tutt’uno. Lo stesso sta accadendo all’università: non c’è un motivo per il quale il mondo dell’istruzione superiore e della formazione continua non debba beneficiare dell’applicazione dei principi della trasformazione digitale al mondo universitario stesso, soprattutto in un paese in cui il tasso di laureati sulla popolazione attiva è il più basso d’Europa e in cui la maggior parte della persone vive in provincia. Ad esempio, noi come Multiversity – tra i primissimi in Italia e in Europa – lanceremo un tutor a servizio degli studenti basato sull’intelligenza artificiale che 24 ore al giorno li assisterà con delle risposte non solo interattive, ma anche personalizzate rispetto al proprio percorso di studi. Questo chatbot quindi, approvato dal senato accademico e dal docente del corso, permette agli studenti di poter dialogare sotto supervisione dell’autorità accademica e di ottenere risposte con un’accuratezza superiore al 99%. Dunque, essendosi sviluppato un mondo nel quale la grande industria del contenuto, le piattaforme del big-tech e il mondo dell’alta formazione si ibridano e capitalizzano ognuno sulle discontinuità innovative dell’altro, ciascuno di noi, qualunque sia l’attività umana, si troverà nel prossimo breve periodo a lavorare in un settore che è anche digitale. Quando è iniziata la mia carriera in Google, ricordo che incontravamo i direttori dei grandi musei cercando di convincerli che la digitalizzazione del patrimonio artistico non avrebbe cannibalizzato le visite fisiche. E così anche nell’editoria: le redazioni digitali dovevano avere uno spessore minore rispetto a quelle che si occupavano del cartaceo. Noi come Multiversity collaboriamo orgogliosamente con l’Università Europea di Roma: di fronte alla rivoluzione digitale, oggi non ci si deve porre la domanda “è un’università fisica o digitale?” come dato discriminante, ma ci si deve chiedere se l’offerta formativa abbia una qualità sufficientemente alta dal punto di vista della ricerca e della forza accademica. Se a quel punto si riesce a innestare tutto questo su una piattaforma tecnologica all’altezza dello spirito dei tempi, credo che si sia ottenuto il migliore dei mondi, soprattutto per un Paese come il nostro che ne ha incredibilmente bisogno.

Sei stato testimone diretto di questa rivoluzione, e in soli dieci anni è stato fatto un percorso straordinario. Ora ti stai dedicando ad applicare le tecnologie al settore universitario. Qual è la storia di Multiversity?
L’idea nasce dal non sempre irresistibile trascorso delle università telematiche, ma è animata dall’ambizione di applicare le migliori regole dal punto di vista strategico, operativo, industriale, tecnologico, accademico e contenutistico della trasformazione digitale al mondo della formazione universitaria e post-universitaria, fino a quella tanto predicata formazione continua. Quest’ultima, di cui il nostro Paese ha un gran bisogno, non è realizzabile sulla scala necessaria se non attraverso la tecnologia digitale. L’Italia, oltre ad essere al penultimo posto in Europa in quanto a educazione terziaria, conta un cittadino su tre che vive in località di meno di diecimila abitanti. In più, quasi sistematicamente, per una persona che ha iniziato a lavorare sostenere i costi da fuori sede o anche una solo moderata intensità logistica di spostamenti comporta una difficoltà, essendo più di una provincia italiana su due priva di un polo universitario fisico. Quindi, visto il ritardo e vista l’esplosione delle tecnologie digitali applicate con successo alla grande editoria, credo che in Italia debba prendere vita con lo stesso spirito la collaborazione tra grandi atenei e piattaforme di education technology più innovative. Proprio da questa collaborazione abbiamo grandi aspettative, perché l’Italia oggi ha bisogno di talento, ha bisogno di far studiare le persone: abbiamo un record negativo, a parte quello che riguarda i Neet, coloro che non studiano e non lavorano, e a un tasso di abbandono scolastico tra i più sfortunati in Europa, e consiste in 18/19 milioni di diplomati che già lavorano e che non sono mai andati oltre il diploma. È una ricetta abbastanza rischiosa, perché in un mondo nel quale negli USA stimano che circa 150 milioni di posizioni lavorative a medio-alta complessità saranno impattate significativamente dall’arrivo di tecnologie basate sull’AI, o l’Italia riesce a posizionare quanti più italiani possibile sul lato giusto della storia, in termini di competenze, aiutandoli a migliorarsi in modo da poter vivere un po’ più da protagonisti questo tsunami di trasformazione tecnologico, oppure credo che di queste grandi discontinuità avvertiremo soltanto il peggio. Quindi bisogna unire le forze, tutti gli operatori del sistema, pubblico e privato, affinché gli italiani possano andare all’università e fare di tutto in modo che questa possa essere portata nelle loro case laddove non sia possibile spostarli attraverso percorsi tradizionali. Lo spazio è enorme, ma è difficile che il nostro paese rimanga tra le otto economie più sviluppate del pianeta con un tasso di sviluppo e manutenzione del capitale intellettuale così drammaticamente distante dagli altri grandi paesi europei, ai quali desideriamo di continuare ad assomigliare.