Capsule Venice, non il solito cubo bianco

La galleria di Shanghai apre la sua prima sede in Europa. Il fondatore Enrico Polato racconta la sua visione dell’arte in un rapporto dinamico con Venezia

Dopo otto anni di attività radicata in Cina, la galleria Capsule apre a Venezia la sua prima sede europea. Una serie di scelte, prima quella di avviare l’attività in Estremo Oriente e poi quella di ricollocarsi a Venezia, che fa pensare a una nuova geografia dell’arte contemporanea. Alla base di questo ritorno –racconta il fondatore della galleria Enrico Polato – non solo la necessità di ripartire da un territorio familiare dopo lo stop imposto dalla pandemia ma anche «il bisogno di riconnettersi alla scena artistica internazionale, contestualizzare il programma della galleria, sedimentandolo in un ambiente culturale diverso dalla Cina. Uno spazio che sia meno transitorio e asettico rispetto ad una fiera, con una situazione meno competitiva, più calda e domestica».

Da qui Venezia, «la città in cui ho studiato e che mi è certamente familiare, ma allo stesso tempo anche poco conosciuta a livello professionale, essendo la prima volta che mi trovo ad operare direttamente nel tessuto cittadino», spiega il direttore. La galleria Capsule apre a Shanghai nel 2016 per raccogliere i frutti di più di dieci anni di formazione professionale del dott. Enrico Polato in Cina, in una città dal carattere internazionale e in grado di offrire situazioni espositive non convenzionali, diverse dal classico “cubo bianco”. «Prima di aprire, ho dedicato circa due anni (2015-2016) alla ricerca sul campo, venendo a contatto con giovani artisti asiatici nati negli anni ‘80 che per diversi motivi avevano condotto i loro studi all’estero. La scelta di aprire Capsule è nata dalla necessità di creare un network di sostegno attorno a questo gruppo di artisti, notando che spesso, pur essendo nati in Cina, i più giovani non avevano familiarità con la scena artistica del loro paese d’origine e così ho deciso di farne uno dei punti chiave di ricerca del programma».

Lo studio del territorio ha quindi portato a una maggiore coscienza delle esigenze non solo da parte del mercato, ma anche degli altri attori coinvolti nel sistema – in primis gli artisti – affiancata a un’indagine delle tematiche che definiscono la contemporaneità in tutte le sue controverse sfaccettature. «Mi piace pensare che, promuovendo artisti giovani in uno scambio che attraversa trasversalmente Oriente ed Occidente, stiamo contribuendo a una ridefinizione dei confini geografici dell’arte e a una maggiore accettazione di qualsiasi tipo di diversità» afferma Polato. Il focus di Capsule risiede nella scelta di artisti che hanno reso la mobilità personale e professionale parte della propria etica. «La presenza di una galleria in un luogo specifico permette di attivare una serie di interazioni e legami con il luogo stesso», che diventa così punto di riferimento per il tessuto urbano e culturale. Questo è successo a Shanghai e questa è la direzione che si vuole intraprendere in Italia.

«L’idea alla base di Capsule Venice è quella di essere un organismo in costante dialogo con la città, i suoi
abitanti, studenti, amanti dell’arte. When We Become Us, la mostra inaugurale della sede, ha rappresentato la trasposizione ideale del desiderio di presentarci con un progetto attraverso cui la nostra identità trasparisse nel modo più naturale possibile. Come dice il testo della nostra prima mostra credo che «la visione di una galleria non si realizzi necessariamente inanellando un successo strategico dopo l’altro, ma quando agendo da catalizzatore, la galleria stessa si trasforma in un “luogo” esperienziale, un punto di raccordo in cui artisti, collezionisti, professionisti del settore, pubblico e la comunità in generale possano passare dall’essere unità indipendenti fatte da tanti “noi” esclusivi (we) al diventare pienamente “noi” inclusivi (us)”». Il programma espositivo 2024, curato da Manuela Lietti, verterà attorno a quattro mostre principali, eventi collaterali e site-specific, conferenze, laboratori in parallelo alla Biennale d’Arte il cui tema curatoriale “Foreigners Everywhere” richiama a un’affinità di intenti. Questo per dimostrare, ancora una volta, l’interesse a creare un dialogo con la città, anche al di là dell’aspetto commerciale della galleria.

Interessante è, a questo proposito, il punto di vista del fondatore sul ruolo che hanno i galleristi nell’attuale panorama dell’arte, soprattutto a seguito del recente dibattito legato ai prezzi delle opere, alle quotazioni – a volte eccessive – di determinati artisti e, di conseguenza, alla selettività dei compratori che si viene a creare. «Nel corso degli ultimi anni – spiega – il mercato dell’arte è diventato sempre più radicale: a momenti di stasi e di flessione, si affiancano momenti di crescita spropositata. Questo può generare un senso di smarrimento nei collezionisti ma anche negli artisti, non sempre equipaggiati per gestire le pressioni del mercato. Credo che per un gallerista sia importante sapere navigare il mercato, mantenendo calma e lucidità, preferendo scelte sul lungo termine». Significativa e simbolica, infine, è anche la scelta della sede di Capsule Venice all’interno della Fondazione Marchesani. Grazie al gioco architettonico creato dalle molteplici stanze intercomunicanti tra di loro e alla presenza di un giardino, si crea una rete di rimandi fatta anche di intimità, in cui interno ed esterno dialogano in una situazione sospesa tra pubblico e privato.

Il “cubo bianco” lascia posto ad uno «spazio più domestico, meno neutro e asettico che traduce visivamente il tipo di sensazione che vorrei che ognuno avesse visitando Capsule», dice il fondatore. «Trovarsi in una dimensione in cui dall’ibridazione di noto e ignoto, di familiare e inconsueto possano nascere modi di vedere l’arte inaspettati, sorprendenti e che non si esauriscano in un rapido sguardo, ma diano vita a molteplici e durature suggestioni».

*L’articolo è stato pubblicato sul numero #131 di Inside Art.