Utopia: lavori in corso

Dalla periferia di Roma a Pescara, tre nuovi progetti museali. A capo Giorgio de Finis, ex direttore del MACRO Asilo, che ci racconta il suo programma per rilanciare l’arte contemporanea

MAAM, RIF, CAMP, tre musei, due città e tre acronimi accomunati da un unico direttore: Giorgio de Finis. Il primo, più volte minacciato di sgombero, ora è in procinto di diventare un nuovo museo del comune di Roma; il secondo, il RIF: museo delle periferie, nato già quattro anni fa, avrà presto una sede a Tor Bella Monaca; mentre CAMP prevede il rilancio del museo di arte moderna e contemporanea di Pescara. L’ex direttore del MACRO Asilo continua a mettere in campo soluzioni stridenti contro il sistema dell’arte contemporanea; a partire proprio dal RIF abbiamo, con lui, provato a capire le sue prossime mosse e le ragioni di queste scelte.

Nato poco meno di quattro anni fa, sembrava fosse un’utopia: il progetto del Museo delle periferie finalmente avrà una sede a Tor Bella Monaca. Cosa è stato fino ad ora, cosa diventerà?

La vicenda del Museo delle periferie più che utopica (anacronistico e un po’ “tolemaico” è il dato che Roma non si sia ancora dotata del suo primo museo fuori dal G.R.A.) è un po’ rocambolesca. La richiesta di immaginare un nuovo presidio culturale per il Municipio VI mi fu fatta dalla precedente amministrazione mentre ancora dirigevo il MACRO Asilo; proposi per il relitto urbano di Largo Brambilla che nei piani si sarebbe dovuto portare a compimento come opera a scomputo, un museo che avesse come missione quello di valorizzare ciò che le periferie (di tutto il mondo e non solo di Roma) sono in grado di generare come risposta vitale allo stato di abbandono in cui spesso si vedono costrette, anche approfittando, e questo a dispetto dei centri storici e dei quartieri di maggior pregio, di una libertà più ampia nei confronti dei dettami imposti alle metropoli – prime fra tutte le capitali e le città d’arte – da finanziarizzazione e turismo di massa. Ricercando e valorizzando innanzitutto quelle esperienze che per la loro originalità dessero prova di avere una attrattività capace di andare oltre i territori di prossimità e creare legami inediti con altri pezzi di città (il MAAM, per fare un esempio un tantino autoreferenziale); insomma iniziative, artistiche, ma non solo, in grado di soddisfare i bisogni locali ma anche di alimentare sogni e immaginari a uso e consumo degli umani-urbani, della parte di umanità che ha scelto la città come ecosistema di riferimento, che lotta per non essere allontanata da quella minerale, sempre più sottratta all’uso e rinchiusa nei caveaux di banche e finanziarie. Terminata un po’ bruscamente, per usare un eufemismo, l’esperienza del MACRO Asilo (in ragione soprattutto, io credo, dello sgombero del Metropoliz che si riteneva allora imminente) per alcuni mesi ho dato per morto, anzi per mai nato, il Museo delle periferie. Fino all’annuncio davvero inaspettato di un suo avvio ufficiale, un museo ancora senza sede ma che già a tutti gli effetti figurava, sotto l’egida dell’Azienda Speciale Palaexpo, come la quarta gamba del Polo del contemporaneo di Roma, insieme al Palazzo delle Esposizioni, al MACRO e al Mattatoio. Nonostante un museo senza fissa dimora sia tutt’altro che impossibile da pensare e da realizzare, le attività della fase “gassosa” del RIF (l’acronimo scelto per il museo, il centro della parola periferia) non sarebbero proseguite all’infinito. A dare nuovo e definitivo impulso al progetto è stato indubbiamente il Piano integrato di Tor Bella Monaca che in qualche modo lo ha fatto suo “teletrasportandolo” di poche centinaia di metri dalla sua iniziale collocazione, e facendolo atterrare nella corte nord del comparto R5 di via dell’archeologia.

Finanziata con i fondi del Pnrr, la sede del museo è stata disegnata dall’architetto Orazio Carpenzano. Come è stata pensata?

Anche qui, a dirla tutta, il percorso è stato abbastanza accidentato, tanto che i progetti realizzati da Orazio Carpenzano (preside della Facoltà di Architettura di Sapienza Università di Roma e ordinario di Composizione Architettonica e Progettazione Urbana) coadiuvato dal suo team, sono due; un primo progetto richiesto dall’amministrazione e accolto nel Piano generale, che prevedeva un museo sotterraneo con tre grandi bocche aperte verso il cielo e il condominio, e un secondo, totalmente ripensato e realizzato a tempo di record per ridurre i costi ed eliminare possibili criticità quali la presenza di reperti archeologici nel sottosuolo che avrebbero ritardato la fine dei lavori che il PNRR fissa al 2026. Ora, dopo l’annuncio ufficiale del sindaco Gualtieri e l’inizio dei lavori, mi sento di poter dire che Roma Capitale avrà a breve il suo primo museo fuori del Grande Raccordo Anulare: 1700 mq, con sale espositive, sale conferenze, laboratori, una biblioteca, uno spazio progettato per adattarsi alle diverse attività che vi si svolgeranno. 

Le attività previste nell’immediato futuro?

Stiamo lavorando alla terza edizione di IPER Festival delle periferie, che si terrà dal 10 al 16 giugno e come lo scorso anno avrà il suo quartier generale alla Pelanda. IPER ci offre la possibilità di fare la nostra periodica apparizione in città, con un programma caleidoscopio di attività, incontri, performance, proiezioni che hanno, oltre che un valore in sé, lo scopo di avviare e chiarire i percorsi di ricerca e gli obiettivi del museo. Dopo Uncentered Paradigma, il paradigma del non-centro è la volta di HIC SUNT LEONES, dove abita l’immaginazione. La domanda che rivolgiamo ad artisti, attivisti, studiosi è: «Esiste ancora, nel nostro tempo e nel nostro mondo, includendo quello delle esplorazioni esoplanetarie, un luogo, fisico o mentale, che possegga le caratteristiche di un altrove radicale, una zona bianca e senza nomi sulla mappa del conosciuto dove esperire la meraviglia o esercitare l’immaginazione? Una periferia di qualche tipo (anche disciplinare) dove ancora “abitano i leoni”, capace in potenza di innescare rivoluzioni paradigmatiche e dare asilo ai nostri residuali immaginari divergenti?». 

Dal MACRO Asilo al MAAM, ogni tua esperienza museale ha un’idea particolare di collezione. Nel museo delle periferie ce ne sarà una?

A dire il vero non sono particolarmente interessato alle collezioni, che secondo alcune definizioni a mio avviso oggi superate, decidono se uno spazio può essere chiamato museo oppure no. Per quei musei che hanno a che fare con il contemporaneo, vale a dire con una materia viva e in continua trasformazione, contano più gli artisti in carne e ossa e i progetti che collaborando con loro si possono portare avanti, dentro e fuori gli spazi del museo, che non riempire i depositi di lavori che raramente si rendono fruibili al pubblico. Penso però che ogni dispositivo museale sperimentale, definite le sue regole del gioco, debba lasciare tracce delle proprie attività sotto forma di documentazione e anche, naturalmente, quando questo sia possibile, custodendo le opere che lì hanno trovato le condizioni per vedere la luce. 

Nato come una “barricata d’arte”, anche il MAAM è in procinto di diventare un museo pubblico del comune di Roma. Un riconoscimento importante.

Proprio così, se il cronoprogramma delle procedure amministrative procederà senza ritardi e la volontà politica di riconoscere lo straordinario percorso di emancipazione e di lotta degli abitanti di Metropoliz supportato da centinaia di artisti non farà dietrofront, presto anche a via Prenestina 913 avremo un cantiere. Il progetto prevede la realizzazione di oltre cento nuove abitazioni popolari, di cui una parte destinate a chi vive nell’occupazione, secondo le necessità evidenziate dal censimento, e la riqualificazione dei corpi principali dell’edificio industriale che ospiteranno gli spazi del museo. 

La trasformazione prevista però non rischia di snaturare il progetto iniziale? Come conviveranno le due anime dello spazio: quella abitativa e quella artistica?

Non bisogna avere paura dei cambiamenti; quando cessano molto probabilmente si è morti. Direi che la prima cosa da fare oggi è festeggiare e rivendicare questo risultato senza precedenti, comprendendone il valore per la città tutta. E naturalmente seguire passo passo l’iter complesso che è in gran parte ancora da compiere. Quello che trovo interessantissimo di questo giro di boa è l’opportunità che offre a studiosi, artisti, attivisti, architetti, amministratori, di cimentarsi in un processo che abbiamo chiamato “Cantiere di co-immaginazione Metropoliz”. Un’inedita occasione di attivazione per interrogarsi tutti insieme sul museo (ma anche la casa, la città) che vorremmo.

Nel frattempo, sei stato nominato anche direttore del museo d’arte moderna Vittoria Colonna di Pescara. Quali saranno i primi passi?
Mi è stato chiesto di rilanciare il Museo Comunale di Arte moderna e contemporanea di Pescara che da alcuni anni è chiuso al pubblico. Il museo ripensato si chiamerà CAMP (Colonna Art Museum Pescara) e avrà una programmazione con andamento stagionale: grandi mostre collettive a tema, per il tramite delle quali affrontare le urgenti questioni del contemporaneo (il mondo e non solo l’arte), un palinsesto di piccole mostre a progetto, e tutta una serie di attività live, performance, conferenza, incontri, che nel corso dell’estate dovrebbero intensificarsi provando a coinvolgere anche la Pescara balneare. A breve dovrebbero iniziare i lavori di ristrutturazione che libereranno la struttura dalle inutili pannellature che al momento coprono tutti gli affacci vetrati sul mare (montate dalla necessità di avere metri lineari dove appendere i quadri!); il progetto di riqualificazione comprende anche i giardini pubblici, nuovo ingresso del museo, e la ricollocazione della celebre Porta del Mare di Franco Summa a Piazza Primo Maggio. Molto altro non posso anticipare, se non che la mostra di apertura sarà tutta al femminile.

*L’articolo è stato pubblicato sul numero #131 di Inside Art.

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