Non risulta difficile, sbarcando sull’Isola del Giglio, immaginare di trovarsi in un luogo carico di storia, costellato di narrazioni che oscillano fra mito e realtà. Lo sa bene Hypermaremma – festival d’arte pubblica ideato e portato avanti dai galleristi Carlo Pratis, Giorgio Galotti e dal collezionista e manager Matteo D’Aloja – che, per la prima volta, si allontana dalla terraferma per approdare sulle coste gigliesi.
L’espediente è il racconto di due mitiche narrazioni locali: il miracolo del patrono locale San Mamiliano, capace di mettere in fuga un’intera flottiglia di pirati che stava assediando l’Isola nel novembre del 1799, e l’incredibile storia della più celebre viticoltrice gigliese Eusebia e di una vita interamente dedicata all’Ansonaco, tipico vitigno locale.
Il racconto di queste due vicende è sviscerato nell’armonica collaborazione fra La Compagnia dei Cosi, un progetto di teatro fuori dai teatri che affonda le sue radici proprio nell’isola, e Giulia Mangoni, sapiente artista di Isola del Liri con la spiccata propensione alla narrazione trasognata di microcosmi tradizionali riletti attraverso una pittura corposa e dall’importante densità cromatica.
Massimo Belli: Proprio da Giulia Mangoni cominciamo il nostro viaggio sull’Isola. La leggenda di Mamiliano, santificato dopo la sconfitta del Drago che regnava sull’isola intorno all’anno 400 d.C., narra di un salvataggio in extremis durante l’assedio piratesco dei turchi. Sono rimasto molto affascinato dalla quantità di versioni esistenti di questo evento: dalla tempesta che ha costretto il nemico alla ritirata, alle botti di vino che hanno ubriacato i pirati facendogli vedere centinaia di gigliesi che erano in realtà solo poche decine, fino all’apparizione miracolosa di una visione di soldati che hanno messo in fuga i turchi.
Per questa leggenda hai realizzato numerosi vessilli triangolari dipinti che sventolano sui filari insieme alle bandiere della festa del Santo. Ogni vessillo reca un’immagine dalla leggenda ma anche da altri universi narrativi fantastici. A questi si alternano delle campanelle che suonano al passare del vento.
Il tuo lavoro strizza, da sempre, l’occhio alla narrazione multidirezionale dell’opera, fornendo degli attributi eppure rimanendo volutamente archetipica per permettere una molteplicità di letture dei soggetti. Come volevi raccontare questa tradizione locale, cosa ti ha colpito all’origine del lavoro?
Giulia Mangoni: Mi ha colpito subito l’universalità di quello che il miracolo di San Mamiliano rappresenta per i Gigliesi, il salvataggio da un nemico nel momento in cui tutto sembrava perduto. La sfida è stata il “come” raccontare ancora questa storia di invasione, di arrembaggio, di protezione e di difesa e infine anche di vittoria sia ad un pubblico locale – che già conosce benissimo la sua storia – sia ad un pubblico estraneo alla leggenda. Per questo motivo, ho deciso di rapportare immagini su delle bandiere che si inseriscono organicamente con quelle della festa del Santo ma, invece di raccontare la storia in modo didascalico, si aprono a personaggi e mostri svariati che hanno origine nelle stesse pulsioni della leggenda di Mamiliano.
Ci sono serpenti e sirene, molte mani che pregano, scene di violenza ma anche di danza e di celebrazione; mi piaceva l’idea di creare più immagini per celebrare un folklore così specifico. In contrasto, all’entrata del castello, ho collocato uno stendardo figurativo più fedele al simbolo della leggenda: la reliquia del braccio di San Mamiliano che emerge tra una composizione dove si vedono le barche e l’invasione mostruosa. L’idea è che l’opera possa entrare, in futuro, nella chiesa per fare parte degli oggetti-reliquia dedicati all’eredità ancestrale dell’Isola. Mi interessa il ruolo della pittura nel piccolo paese, molte volte ancora impiegata per raccontare le storie religiose del posto.
MB: Per la narrazione della viticoltrice Eusebia hai, invece, realizzato delle scenografie teatrali collaborando con La Compagnia dei Cosi, che ha messo in scena la storia di una donna integerrima, baluardo di un mondo agreste e laborioso scomparso ma che ha resistito all’ammodernamento forzato dell’ultimo mezzo secolo.
Qui una serie di teli e drappi è stata disposta a terra simulando una vigna, scenario di riferimento della storia. La scelta è stata quella di creare un layering che, non solo visivamente, recuperasse la sovrapposizione di eventi che attraversano la vita di Eusebia: nei colori e nei motivi dei drappi sembra di intravedere lo scenario naturale del giglio, il mare davanti al quale si trovava la sua vigna, i cunicoli delle fabbriche portate dall’industrializzazione forzata, le strade di città, il castello.
Rinunciando alla verticalità hai lasciato che il tuo lavoro si armonizzasse con il paesaggio naturale circostante, diventasse calpestabile, è stata una scelta deliberata? Quale è stata la sintonia che hai cercato con La Compagnia dei Cosi per realizzare un ambiente che fosse artistico ma anche utile, spendibile per interpretare uno spettacolo?
GM: La scenografia sulla rocca fa parte di un processo che penso sia ancora in evoluzione. La mia idea di scenografia in collaborazione con La Compagnia dei Cosi era quella di dare a loro materiali diversi per poter demarcare la zona teatrale in diverse situazioni all’esterno ma senza interferire con la scenografia ‘naturale’ del paesaggio isolano. Dato che la storia di Eusebia, nell’immaginario del teatro, si svolge in una vigna seppur poi realizzata su un’altura, lo spettacolo aveva bisogno di una scenografia che ricordasse i colori e l’atmosfera delle vigne sul mare.
La scenografia a terra, invece che classicamente verticale, è nata per ragioni pratiche: trovando si in un punto molto ventoso c’era bisogno di qualcosa di ergonomico per geografia. Era anche utile che fosse a terra per replicare in modo fisico una pianta che si espande dal centro verso l’esterno. Un telo più figurativo, dove si vede un intreccio di una rampicante, si pone sul rudere del ‘chiesone’ rappresentando lo spirito della vigna; da lì la composizione si espande a 360 gradi. In questa situazione l’artistico deve essere utile, ed è divertente trattare il telo dipinto – normalmente visto nel mio lavoro con distanza e a parete – come un oggetto calpestabile per le attrici. Mi piace che i teli creino uno spazio da abitare e che i sassi, pesando, reggano giù questi teli funzionando come una punteggiatura spaziale.
L’intera esperienza di scenografia è un esercizio di pittura nello spazio, dove ogni elemento è lo strato in una composizione temporale, che ha un inizio, un mezzo e una fine. È molto bello per me lavorare con la temporalità e pensare che questa scenografia sarà sempre site-specific, cambiando di posto in posto a seconda dalle esigenze.
Sono curiosa di vedere come La Compagnia dei Cosi userà la scenografia per ricreare lo spettacolo in luoghi diversi. Mi chiedo se mischieranno le tipologie di telo diverse, se finita la ‘stagione’ estiva, porteranno dentro un teatro questa scenografia per esterno. Gli ho suggerito che un giorno potrebbero fare dei veri e propri sipari con i teli, sia quelli agricoli che quelli dipinti e colorati. Per aumentare le possibilità di utilizzo ho dipinto i teli colorati da tutte e due le parti. Mi diverte l’idea di creare ulteriori stratificazioni per rendere il loro lavoro più dinamico nello spazio.
MB: A La Compagnia dei Cosi si deve il merito originario di questa tradizione coltivata attraverso l’arte e la cultura. Progetto iniziato nel 2019 dall’incontro fra Gaia e Stefano in Accademia e costruito nel difficile periodo del lockdown (2020-21), La Compagnia dei Cosi persegue la direzione di un teatro capace di uscire dalla sua comfort zone per cimentarsi con un public engagement non sempre facile con un pubblico non specialista. L’idea di allargare la platea dello spettatore teatrale a qualsiasi individuo osservante, specchio della contemporaneità frastagliata che viviamo, comincia a partire dagli spettacoli realizzati sui traghetti che dall’Isola portano a Porto S. Stefano e viceversa.
Da lì, il rientro nel teatro in maniera del tutto anticonvenzionale: con la produzione di Mapping Goldoni per il Teatro Stabile del Veneto, La Compagnia dei Cosi porta lo spettatore a vivere ed esperire tutti i luoghi reconditi e nascosti del teatro barattando la scena con una serie di nuovi spazi nei quali dare vita allo spettacolo. Da dove nasce questo approccio? In che direzione va il vostro progetto?
La Compagnia dei Cosi: Questo approccio nasce da una nostra personale esigenza: incontrare pubblico, il più vasto e variegato possibile. Incontrare anche la parte di questo che solitamente non va a teatro al fine di ritrovare il senso stesso del teatro. Spesso, nei contesti più blasonati, ci si ritrova ad interfacciarsi con i soli abbonati mentre nei teatri off della scena contemporanea ci si rapporta con una platea composta principalmente da operatori del settore. Vorremmo uscire da una certa autoreferenzialità e riprendere il contatto con il mondo reale per capire se il nostro lavoro ha davvero un senso all’interno della comunità o ne ha solo per noi teatranti. Per adesso, a giudicare dalla nostra esperienza, ci sembra buona la prima ipotesi.
MB: Lo spettacolo dedicato a Eusebia, interpretata con incredibile fedeltà da Gaia spalleggiata dai tantissimi personaggi interpretati magistralmente da Ginevra, è un mix rapido ed emozionante di fatti storici, tradizioni locali e leggende tenute insieme dalla vita rocambolesca di questa donna. Da dove nasce il desiderio di farne uno spettacolo? Com’è avvenuto il recupero di tutte quelle testimonianze di chi l’ha conosciuta che emerge nel vostro spettacolo?
CC: Da ormai cinque anni portiamo avanti il nostro progetto sui traghetti per il Giglio. Lì sopra raccontiamo storie e leggende dell’Isola alle persone in arrivo, di conseguenza ogni anno ci troviamo a dover cercare nuove storie e nuove leggende. Quando siamo incappati nella storia di Eusebia abbiamo subito capito che era una storia a cui avremmo dovuto dedicare più tempo e un approfondimento maggiore rispetto alle altre storie e leggende che solitamente raccontiamo sul traghetto.
Eusebia è stata una donna rivoluzionaria per il suo tempo, è stata l’unica donna a gestire da sola una vigna, la prima imprenditrice agricola dell’Isola. Ha vissuto più di cento anni ed è stata perciò testimone dei radicali cambiamenti socioeconomici dell’isola. Cambiamenti che non hanno, però, modificato il suo modo di vivere, di coltivare la terra, di vendere l’uva, di fare il vino. È stato interessante immaginare come questa donna potesse reagire ai cambiamenti socioeconomici e con lei come reagisse tutto il mondo contadino, perché questo è stata: emblema e ambasciatrice di un intero mondo che viveva così, pensava così e faceva le cose così.
Incontrare le persone che più le sono state vicine e che ci hanno raccontato, attraverso le interviste, il carattere e la vita di Eusebia è stato un viaggio nel tempo ma la cosa più sorprendente è che durante i due mesi di repliche tutti al Castello hanno ricominciato a parlare di Eusebia, a ricordarla e, alla fine di ogni spettacolo, ognuno che l’aveva conosciuta aveva voglia di lasciarci la sua testimonianza; così abbiamo scoperto che Eusebia era appassionata di pugilato e stava sveglia la notte per vedere gli incontri, che una volta mandò a quel paese Uto Ughi che suonava in una delle finestre del Castello.
Eusebia descrive bene il modo di essere gigliese e soprattutto castellano: la caparbietà, l’asprezza ma anche la generosità e bontà d’animo e forse è vero che il mondo i Eusebia non esiste più nella realtà, ma nel cuore della gente dell’isola è ancora molto vivo.
MB: Tornando al tuo lavoro, Giulia, e all’aderenza che Hypermaremma cerca sempre di creare con il territorio nel quale interviene, com’è stato lavorare in questo progetto?
GM: È stata molto importante per me l’idea del lavoro in processo, l’idea che sia le bandiere che la scenografia che accompagna La Compagnia dei Cosi sono elementi che possono ritornare in diverse iterazioni negli anni anche senza la mia presenza. È bella l’idea che ci sia un dialogo più lungo, invece di vedere l’apertura del progetto come una celebrazione della fine di un percorso. Hypermaremma ha capito che questo scambio è vitale per lavorare con il territorio e mi ha sostenuto nella sperimentazione che può succedere solo quando si pensano progetti territoriali con lunghi e multipli risultati.
Mi sono sentita, nel miglior modo, come un’artigiana con il compito di veicolare le storie di un luogo e questo ribaltamento dei ruoli, secondo me, è stato la ricchezza del progetto. Lavorare così fuori dagli schemi dell’urbano è sempre un modo di trovare la vera innovazione e di fare grandi scoperte nel lavoro. Torno da questo progetto con la voglia di lavorare sulla costruzione e distruzione di oggetti in ceramica, ispirata dalle campane inserite nei filari delle bandiere, e con la voglia di espandere ancora di più la pittura nello spazio e nel tempo.
info: hypermaremma.com