È il 1969 quando Vincenzo Agnetti, tra i primi e maggiori interpreti dell’arte concettuale italiana, presenta in mostra per la prima volta, da Cenobio-Visualità a Milano, La macchina drogata: una calcolatrice Divisumma 14 Olivetti nella quale sostituisce ai numeri i segni alfabetici e quelli d’interpunzione. L’aspetto della macchina, la sua funzione di produrre segni, sono rimasti identici ma è cambiato il messaggio, fino all’inutilità della civiltà che l’aveva progettata per soddisfare esigenze di calcolo più veloce e preciso.
Il pubblico era invitato a entrare in un cubicolo chiuso da una tenda nera, dove si trovava lo strumento, e a utilizzarla, dando vita a un’azione collaborativa e performativa base poi per la nascita di quello che Agnetti definirà Teatro Statico. Nell’opera una critica al linguaggio, alla politica e una rappresentazione teatrale si intrecciano. Il malfunzionamento come momento liberatorio e sovversivo, con l’intento di liberare le macchine da sé stesse e dalla propria efficienza: manomettere tutti i sistemi e disarmare il mondo.
In quegli stessi anni Tomaso Binga, nome d’arte di Bianca Pucciarelli Menna, artista, poetessa e performer – la quale scelse questo pseudonimo per contestare i privilegi del mondo maschile – inizia una sperimentazione artistica e poetica incentrata sulla scrittura verbo-visuale.
Negli anni Settanta, dopo aver lavorato con la scrittura “desemantizzata”, un segno grafico apparentemente disfunzionale e non comunicativo, la ricerca dell’artista vira verso la Poesia Concreta. Nel 1978 viene invitata da Mirella Bentivoglio a partecipare alla mostra Materializzazione del linguaggio nell’ambito della Biennale Arte di quell’anno. In quella occasione presenta il Dattilocodice, una serie di opere generate dalla sovrapposizione delle battute di segni e lettere della macchina per scrivere Olivetti Lettera32. Sommando una i a un 9 o un 7 a una j, l’artista annulla l’identità originaria dei singoli elementi alfanumerici. Quindi, da un errore di battitura di due tasti contemporaneamente, nasce un segno che a sua volta, attraverso la scelta compositiva dell’artista, da luogo a un criptico codice linguistico e immagini inedite.
Due artisti, tra loro contemporanei, che utilizzano la stessa tipologia di strumento ma con scopi differenti. È questo che ha spinto la Galleria Erica Ravenna a realizzare una doppia personale dedicata a Vincenzo Agnetti e Tomaso Binga, dando vita a un dialogo tra due persone che hanno privilegiato l’uso della parola come medium espressivo di quel processo di trasformazione, grazie al quale il pensiero, le esperienze e la vita divengono ‘operazione artistica’.
Tra le circa 30 opere esposte, per la maggior parte inedite, vi è la lettera originale del suddetto “teatro statico”, riguardante la funzione metalinguistica del linguaggio, la demistificazione delle informazioni e il rapporto con la società dei consumi. I lavori mettono in luce i punti di contatto tra i due artisti che hanno condiviso linguaggi comuni tra cui l’uso della poesia, le pratiche performative e la concezione dell’arte come un’operazione di sintesi.
La macchina da scrivere, così come quella da calcolo, è stata tra degli strumenti più utilizzati dagli artisti negli decenni ’60 e ‘70, per la realizzazione delle loro opere. Erano gli anni della sperimentazione, dell’avvento di materiali extra-artistici e delle più aggiornate tecnologie, che hanno ispirato e influenzato la ricerca nell’ambito dei nuovi linguaggi dell’arte. La mostra analizza come i dattilocodici di Tomaso Binga e i prodotti della macchina drogata di Vincenzo Agnetti hanno anticipato quanto accade oggi nell’ambito delle nuove tecnologie, dell’intelligenza artificiale e dei new media, come produttori di opere d’arte attraverso i trascorsi risvolti creativi nel rapporto fra l’uomo e la macchina, che diventa autonoma e “viva”.
Come dice Giuseppe Garrera, autore del testo che accompagna la mostra, le operazioni dei magnifici malfunzionamenti di Agnetti e Binga hanno anticipato l’arte dell’interferenza, che fa del disturbo, del rumore, dello scarto visivo, dell’inceppamento, del black out, del difetto ed errore principio di destabilizzazione del visibile e della dittatura della narrazione del mondo.
Display di smartphone rotti, interferenze e disturbi acustici nelle trasmissioni radio, paralisi di immagini o immagini inceppatesi, divengono momenti di autenticità e inveramento. Solo quando c’è un’interferenza la attenzione dell’uomo interrompe l’ipnosi della pace tecnologica e ideologica degli strumenti di funzionamento dell’irrealtà: l’interruzione ci getta nell’ansia dell’esistenza e apre alla pietà dell’opera disarmata e impazzita. Arte del e dei “glitch”, come viene detta mutuando un termine gergale tecnico utilizzato tra gli ingegneri radiotelevisivi negli anni ’50, si è diffusa anche nel mondo dei giochi per computer, per descrivere errori di programmazione o grafici (a volte provocati intenzionalmente per garantirsi fuoriuscite, punti di fuga, scappatoie), disturbi o guasti inaspettati.
La Galleria Erica Ravenna, con questa esposizione, prosegue il lavoro iniziato nel marzo del 2023 con la collettiva Fare uno, dalla parola al segno un dialogo possibile e all’interno del progetto di miart 23, sul confronto tra Agnetti e Binga. Testimonianza e prova del senso di questo confronto, nonché del legame tra gli artisti, vi è la poesia che Vincenzo Agnetti ha dedicato a Tomaso Binga nel 1977 e oggi ritrovata.
La mostra sarà aperta al pubblico fino al 15 luglio.
info: ericaravenna.com