Alla Fondazione Merz il sacro del quotidiano

Con una selezione di installazioni, performance, sculture, film e video la Fondazione Merz presenta la collettiva "Sacro è"

Quando si parla di sacro si pensa subito a qualcosa di lontano e irraggiungibile per l’uomo comune, verso il quale quest’ultimo si sente inferiore e a cui guarda con timore e paura, ma dal quale è allo stesso tempo affascinato. 

Ma cambiando il punto di vista e focalizzandosi sulla quotidianità e sulle piccole cose che in essa accadono, ognuno può trovare qualcosa di sacro. Ed è questo di cui parla Franco Arminio in Sacro Minore, una raccolta di poesie da lui realizzata per ritrovare e ritornare, a quel sacro che può essere raggiungibile, un sacro che si può ritrovare nella vita ordinaria di tutti i giorni.

Dalle poesia di Arminio è partita la curatrice Giulia Turconi per realizzare Sacro è, la mostra che fino al 16 giugno, è allestita negli spazi di Fondazione Merz a Torino, che indaga il tema del sacro, approfondendo cosa questo concetto riservi, comporti, custodisca e nasconda attraverso una selezione di installazioni, performance, sculture, film e video.

«L’esposizione – racconta la curatrice – nasce da una riflessione circa il concetto di sacro, partendo dalla sua definizione, inteso come una realtà totalmente differente di fronte la quale l’uomo si sente atterrito e spaventato. Una realtà a cui non è possibile avvicinarsi completamente. In molte tradizioni religiose infatti il sacro è collegato al simbolo del fuoco, qualcosa che attrarre e spaventa. Franco Arminio, nella sua raccolta di poesie decide di relazionarsi a un sacro minore che può essere ritrovato nella quotidianità, quindi qualcosa davanti al quale si resta sbalorditi, ma che in qualche modo si riesce a comprendere e raggiungere, anche senza trovare una spiegazione specifica. Volevo in qualche modo, in questo periodo particolare in cui ci troviamo, in cui sembra che l’odio ci stia sovrastando costantemente, fare si che ci fosse la possibilità di riflettere su che cosa possa essere sacro e non malvagio nella vita di tutti i giorni: qualcosa che mostri quello che c’è di buono, quale sacro possiamo ritornare».

La mostra quindi esalta la dimensione di sacro che può essere ritrovata nella quotidianità, nel minuscolo, nella grandiosa capacità di riconoscere la meraviglia dell’esistere e la sua sotterranea poesia nella vita di tutti i giorni, trovando un nuovo punto di partenza da cui rinnovare lo sguardo verso il mondo, che sempre più sembra sopraffatto dall’odio, dalla rabbia e dall’indifferenza.

Per fare questo la Turconi, alla sua prima esperienza da curatrice in uno spazio pubblico, ha scelto di adottare lo sguardo di una giovane generazione di artisti e artiste, con anni di nascita tra il 1982 e il 1998, al fine ci concentrarsi su un sacro odierno, contemporaneo e rinnovato che germoglia sempre da una dimensione personale, intima e privata manifestandosi poi in un corrispettivo universale e collettivo.

E inevitabilmente che nei vari lavori ci sia una convergenza e un legame tra due poli opposti: vita e morte. La curatrice ha deciso di aiutare nella comprensione di questo legame proiettando in mostra il film del 1968 di Pasolini, Teorema, in quanto il grande maestro riteneva che l’unica cosa che dona vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia e riteneva che attraverso la sacralità possibile tenere legati i due estremi.

Otto sono i giovani artisti chiamate esporre con altrettante opere: Tiphaine Calmettes (Ivry-sur-seine, Francia, 1988), Matilde Cassani (Domodossola, Italia, 1980), Giuseppe Di Liberto (Palermo, Italia, 1996), Lena Kuzmich (Vienna, Austria, 1998), Quỳnh Lâm (Saigon, Vietnam, 1988), Tommy Malekoff (Virginia, USA, 1992) Lorenzo Montinaro (Taranto, Italia, 1997) e GianMarco Porru (Oristano, Italia, 1989).

A introdurre e accogliere il visitatore negli spazi allestitivi di Fondazione Merz è il drappo rosso con la scritta bianca TUTTO realizzato da Matilde Cassani, intitolata Tutto (2018). L’installazione diviene metafora di una soglia da varcare, una sorta di rito di passaggio verso una riflessione introspettiva che si evolverà nel corso della visita. Il lavoro è parte di un progetto ideato in occasione di Manifesta 12 a Palermo, dove la curatrice Giulia ha avuto modo di vederla e apprezzarla per la prima volta, e innesca una riflessione sulla memoria collettiva e sulle tradizioni popolari, ponendo l’accento sul complesso sistema di realtà politiche, sociali e culturali in divenire che abitiamo. La scelta del titolo, Tutto, riflette e conserva il significato profondo della parola: racchiude ed esprime la volontà di mescolare persone, differenze ideologiche, religioni, elementi della tradizione popolare, il passato e il presente in un unico vortice dal quale si ritorna alla vita in uno stato di rinnovata consapevolezza.

«La volontà di iniziare con il drappo di Matilde – afferma la curatrice – sintetizza idea che tutto possa essere sacro nella quotidianità». Posto all’ingresso, quasi come fosse un sipario, il drappo diviene la soglia che il profano deve superare per accedere alla dimensione spirituale .

La suggestione continua nella prima sala della fondazione: teli bianchi in plastica scendono dal soffitto altissimo fino a terra, muovendosi con ogni spostamento d’aria e creando fruscii e rumori che affascinano e intimoriscono. Questi teli sono la scenografia delle performance di Giuseppe Di Liberto, realizzata con la regia di Davide Di Liberto, Sparge la morte (2022-2024), di cui in mostra rimarranno le immagini e il suono trasmesse su uno schermo posto al centro della sala. La performance site-specific esplora il tema della morte e dei riti che la accompagnano. Il progetto parte da una suggestione in merito ai canti madrigali e si ricollega a passeggiata che i fratelli Giuseppe e Davide hanno fatto al Cimitero delle Fontanelle di Napoli, in cui c’erano molte tombe ricoperte da teli di plastica bianchi e rimanda anche alla processione del Corpus Domini che si svolge in Sicilia durante la quale vengono stesi dei teli bianchi hai balconi, come se questo colore lenisse il dolore della morte e della perdita.     

I due artisti collaborano per l’occasione con il compositore di madrigali Carlo Gesualdo in una performance la cui scenografia rimanda alle celebrazioni del Corpus Domini siciliane. I teli in plastica sono retroilluminati da una luce fioca che rimanda alle candele votive e attraversati da ombre di corpi, suoni di strumenti musicali e voci soffuse, nella costruzione di una vera e propria composizione drammaturgica.

«Sono tutti madrigali che derivano dai libri di Carlo Gesualdo – racconta Giuseppe Di Liberto – quindi musica barocca non facile da ascoltare. Sarà molto suggestivo e particolare. Davide ed io siamo dei cultori dei madrigali, dei madriga-esteti, che producono e costruiscono questa drammaturgia attorno a questa luce che poi diventa corpo morto. Dietro a tutta questa ricerca c’è la relazione, la dicotomia lineare tra vita e morte, tra fisico e non tangibile, tra presenza e assenza. Quindi anche i teli assumono un ruolo cardine nella rappresentazione perché al tempo stesso, velano e disvelano: due gruppi vengono posti a destra e sinistra della scena, equilibrati su un punto centrale focale e sono opacizzati da questo drappo». 

Cinque sono i cantanti e cinque i musicisti, perfettamente divisi, che recitano i canti madrigali, dieci in totale, mentre i performer mettono in atto una marcia funebre portando tra le mani un led. Il lavoro esplora così la dinamica delle celebrazioni introducendo e approfondendo, una riflessione sul tema della morte, indagando i riti che ruotano attorno a essa e facendo da eco agli altri lavori, esalta un’alternanza continua tra una forte dimensione spirituale e una tensione terrena, umana e materiale.

Si prosegue con l’installazione Dì tutta la verità ma dilla obliqua (2024) di Quỳnh Lâm, che trae il proprio titolo da una poesia di Emily Dickinson per esemplificare le nozioni di vita e morte e la sacralità che le accompagna. I fiori posati al suolo, accompagnati dalla composizione di colori Flowers Obscuder (2019), divengono metafore per porre domande sul senso del tempo, stimolando una riflessione sul processo della vita e sulla sua naturale decadenza. Idea è quella di concentrarsi sul trascorrere del tempo.

Quỳnh Lâm, per questo progetto, ha utilizzato dei teli bianchi ricoperti di terra e fiori, e li tratta come fossero dei corpi: in scena è come se ci fossero un insieme di corpi che vengono svelati pian piano e che si trasformeranno nel corso della mostra, infatti i fiori inevitabilmente andranno a deperire, a decadere. È un’analisi sul passaggio del tempo, sulla lentezza della vita. 

Fondamentale è stato anche il lavoro che ha preceduto l’installazione: la scelta, la selezione dei fiori è stata lunga e complessa. L’artista è stata nei loro confronti custode e becchino. Li ha colti, divisi uno per uno e poi organizzati su teli di plastica, dopo di che li ha ricoperti di terra uno per uno, seguendo un processo secondo cui la terra veniva resa più liquida con dell’acqua. Solo alla fine li ha disposti sui lenzuoli, già disposti a terra. È stato interessante tutto il lavoro che ha preceduto questa installazione finale. 

I fiori scelti sono i crisantemi, poiché anche in Vietnam, luogo di nascita di Lâm, sono utilizzati per i morti; le altre tipologie sono state selezionate in base alla loro bellezza estetica e per il loro colore. Sul muro, oltre ad essere dipinta la frase che da il titolo all’opera, sono presenti delle macchie gialle, realizzate utilizzando i pigmenti dei fiori. L’installazione è accompagnata da un video, realizzato in vari anni, suddiviso in tre capitoli, in cui i fiori sono oscurati e ricordano la pelle umana, il corpo. 

GianMarco Porru con l’installazione Uma Fonte (2023-2024) esplora il significato dell’acqua come soggetto e protagonista di molte tradizioni religiose. Realizzata in occasione di una residenza a Rio de Janeiro, l’opera assume le sembianze di una fontana e rintraccia il legame tra spiritualità dell’acqua e architetture che la accompagnano, che in Brasile assumono una configurazione collettiva. Porru si è domandato come gli esseri umani possano raggiungere uno stato di segreta estasi, un benessere interiore. Questa riflessione, partita da un punto di vista personale, era stata intesa come un qualcosa che può essere raggiunta individualmente, ma poi in Brasile ha preso una forma collettiva, perché molti rituali vengono eseguiti anche in maniera collettiva e comunitaria.

L’idea è stata quella di creare uno spazio che potesse portare quella sacralità all’interno dello spazio urbano, quindi attraverso una fontana, una piscina, uno spazio dove stare insieme. All’interno del lavoro ci sono degli elementi che riportano a una mitologia personale: le lune, le sfere, le mani, le candele, una serie di elementi magici. La scritta, in arancione fluo, è realizzata in alluminio morbido che è stato poi colorato con vernice spray.

L’esposizione continua con le sculture di Tiphaine Calmettes, che costruiscono un ambiente intimo e familiare in cui il visitatore è invitato ad accomodarsi, ospite d’eccezione negli spazi di una cucina. Composti prevalentemente in terra e argilla, i lavori di Calmettes sono soggetti alle trasformazioni del tempo e quindi in costante mutazione. 

Con l’opera Soupe primordiale (2022) l’artista pone l’opera d’arte al centro di uno spazio morbido e accogliente, che rievoca le caratteristiche del “brodo primordiale”, teoria scientifica secondo la quale la vita sulla terra ha avuto origine da un ambiente sufficientemente caldo e appiccicoso. La volontà dell’artista è ricercare un ambiente che possa far sentire accolti i visitatori. Inoltre le opere possono essere utilizzate: in una è presente del te e nell’altra una zuppa. Sulla panchina ci si può sedere per gustare quanto prodotto dalla “cucina”. La Calmettes è interessata a creare una comunità e una collettività: si torna al bisogno e volontà di stare insieme e di condividere. 

Lorenzo Montinaro propone un affondo nel tema della memoria, affrontato a partire da ricordi ed esperienze personali. Nell’installazione C’eri (2022) l’artista realizza una composizione di ceri azzurri spenti, disposti su scaffali zincati e provenienti da chiese e dal Cimitero Monumentale di Milano. I ceri accompagnano il visitatore fino all’opera successiva, Senza titolo (Epilogo) (2024), che vede una selezione di inginocchiatoi segnati dalla combustione rivolti verso i resti di una pala d’altare, in una delicata riflessione sulla forza e sulla centralità del silenzio.

Quello che si viene a creare è una piccola cappella. Le panche bruciate portano i segni delle persone che si sono inginocchiate, ombre che resistono al fuoco. È una sala con delle presenze ingombranti. Su una parte vi è, poggiata a terra, una pala d’altare realizzata con frammenti di lapidi rotte. Idea dell’artista è creare un ambiente in cui ci sia una presenza fatta di assenze e rivolte verso altre assenze e dove emerge un sentimento di resistenza e silenzio, che si uniscono ai ceri che Montinaro ha recuperato dal cimitero con l’idea di bloccarli nello scaffale. Queste candele hanno ascoltato le preghiere rivolte dalle persone ai propri cari defunti e a Dio, e vengono trattenute al suolo in un tentativo fallimentare. L’artista decide di prendersene cura lui. Sono il residuo fisico di qualcosa che non c’è più. «Sono tutte cose che non ci sono più ma il non esserci è ingombrate» afferma l’artista.

La mostra si sviluppa nella riflessione sulla relazione tra sacro e non-luogo proposta da Tommy Malekoff con l’opera Desire Lines (2019), un video a due canali che presenta in un loop infinito l’indagine che l’artista dedica allo spazio liminale dei parcheggi. Il parcheggio, non luogo per antonomasia, diviene per Malekoff un luogo pieno di possibilità e il palcoscenico ideale per ogni tipo di attivazione e rituale; diviene uno spazio per studiare le relazioni sociali e in cui trovare un sacro quotidiano. L’indagine è stata condotta dall’artista in circa due anni, in 14 diversi stati d’America. Sono eventi, performance che Malekoff riprendere casualmente: si va dai ballerini alle corse di cavalli, ai fuochi d’artificio alle gare di automobili e così via. 

Il percorso espositivo si conclude nella sala al piano inferiore, con la video installazione Chimera (2022) di Lena Kuzmich, che esamina l’ecologia queer e la vita non binaria nell’ambito naturale. Combinando filmati differenti l’artista sfida i concetti di creazione, estetica e formalità della conoscenza scientifica, invitando il pubblico a una riflessione condivisa su come l’essere umano possa funzionare all’interno di un sistema dove viene posto in contrasto all’elemento naturale. La sua riflessione parte dal fatto che da bambina era spaventata dalle lumache, ma con calma, si è approcciata a questi esseri e ha iniziato a domandarsi che cosa differenzia gli esseri umani dalla natura e come gli uomini, che ormai si trovano all’interno di una società occidentalizzata e totalmente tecnologica, possano tornare a quello stadio di natura originario e relazionarci a esso. Il video termina affermando che bisognerebbe abbandonare tutte quelle barriere che sono state imposte e riconnettersi a quello stadio originario.

Le opere degli artisti in mostra dialogano con una selezione di lavori di Mario Merz e Marisa Merz, esposti al fine di mettere in scena un confronto generazionale, essendo presenti opere di artisti molto giovani, ma anche con l’intento di rendere omaggio ai due padroni di casa.